Sùilad!
Qui sotto troverete il primo capitolo del romanzo fantasy Le ombre del Destino, Il Cavaliere dagli occhi purpurei, edito da Europa Edizioni.
Vi sarà possibile leggerlo in due formati differenti:
- Direttamente su questo Blog, continuando a scendere;
- Scaricando il Formato PDF del primo capitolo
In entrambi i casi potrete leggere la prima parte del romanzo, ma con alcune differenze dall'originale, che non sono state accettate dall'editore. Vi auguro un buona lettura!
NB: Ringrazio Simone e Marta per aver collaborato alla sistemazione delle bozze.
(Clicca sopra)
Guarda il Trailer:
(Con la voce dell'attore Francesco Masala)
Edificare Universi
Giovanni Giuseppe Pintore
Le ombre del destino Il Cavaliere dagli occhi purpurei
ISBN 978-88-6854-112-5
© 2013 Europa Edizioni s.r.l. www.europaedizioni.it
I edizione febbraio 2014
Prologo
Un’esplosione
di perplessità scaturì al termine della “Guerra degli Dei”;
ogni singolo soldato, o comandante dei due eserciti opposti, si
fermò a lungo ad ammirare il cielo, inerme dinanzi al potere
delle divinità: il sole e la luna scioglievano il loro legame,
allontanandosi dopo due giorni d'intramontabile eclissi. Il calore e
la dolcezza dei raggi irradiati dall’evento purificarono l’ormai
silente Ponte di Thyr. Non vi erano più soldati sul campo di
battaglia, solo cumuli di cenere e petali d’ombra. Mistiche
luci illuminavano l'estesa ed artificiale superficie rocciosa: spade
e scudi infranti giacevano sul terreno, ed inutili bandiere dalle
diverse sfumature sventolavano solitarie nel soffio gelido di
un'immonda quiete. Pozze di sangue e frammenti di legno, metallo e
pietra erano gli unici simboli di una battaglia ormai conclusa. I
superstiti avvertirono solo una perfetta stasi in quel luogo, ove
ogni pretesto per affrontare quella guerra non trovava più i reali
motivi per continuarla; le due schieramenti avevano perduto ogni
sorta di supporto degli Dei. Non rimanevano che creature mortali
a vivere ciò che ne era stato di una lotta sanguinosa e crudele, ove
più mondi avevano contribuito ad alimentare le speranze di un'unica
causa: la pace era finalmente giunta, ed il Re era in salvo.
Nel
silenzio della vergogna ogni singolo trovò la propria strada: mai
come in quel momento l’ira degli Dei si era mostrata tanto
temibile. Solarniar e Shania, divinità del sole e della luna
agli occhi del mondo, avevano calato con inorridita fermezza la loro
furia su entrambi gli eserciti, punendo i propri figli: mai come in
quell’istante quel mondo antico aveva tremato; la paura e lo
sconforto erano palpabili nell’aria. Era l’evento che segnava una
svolta, una seconda opportunità per chiunque avesse avuto intenzione
di coglierla: era l’inizio della Nuova Era.
Sullo
Stretto di Thyr sarebbero rimasti solo i Grandi Tirdir, i quattro
imponenti guardiani di pietra siti a capo ed alla fine del ponte,
due per parte: sarebbero stati gli unici a custodire per l’eternità
il ricordo di quella battaglia, ma nessuno avrebbe mai udito la loro
storia.
Le
vite di ogni singola creatura ripresero a scorrere come un tempo,
all’oscuro di sussurri lontani che si animavano dietro i colli
e le sterminate Pianure del Diamante; l’ombra della guerra si
sarebbe tramutata presto in un pallido ricordo, del quale solo Elfi e
Nani avrebbero serbato ferrea memoria; non come gli uomini,
travolti dagli eventi, e soliti scordare ciò che più li ha afflitti
per poter guardare avanti.
Nuovi
regni vennero proclamati, ed ognuno scelse da sé la strada da
seguire, assecondando le proprie leggi ed onorando i propri Dei,
ampliando il rispettivi territori e dando vita ad una nuova
epoca, fatta di conquiste libere. La pace tra i regni, però, fu
solo una maschera dietro alla quale tutto il mondo non poteva
nascondersi: piccole battaglie si susseguirono, ma nessuna vera
minaccia insidiò la stabilità; nessun sovrano osava posare gli
stendardi del proprio esercito sul territorio ove la tragica
guerra era stata combattuta, al fine di risparmiare ai sopravvissuti
di Draakhonsgaard ulteriori inutili sofferenze.
Ciò
che il mondo comprende, ma non accetta, è che il male trova sempre
un modo per ritornare; nonostante ci si sforzi per evitarlo, il suo
seme è infido, e germoglia tra le folle delle città e le gole
sperdute, nei profondi mari e negli aridi deserti. Alla nascita di
una crudeltà, Draakhonsgaard subisce, in attesa che una stella
luminosa cada dal cielo, impugnando l’ira degli Dei ed
indossando un’armatura di luce, pronta a donare al mondo ogni
frammento della sua pura essenza, senza richiedere in cambio alcun
tributo, se non una retta via di pace.
In
un’era di ombre occultate da fittizie luci, nasceranno le speranze
di un mondo intero; nel corso dei secoli di apparente pace si
forgeranno nuovi destini: le tessitrici dell’Arcano Arciere
attendono pazientemente che la tela sia completa, prima di spezzare i
fili del destino.
In
una terra pregna di leggende, i Draghi sono divenuti mito: la Guerra
degli Dei coincide con la loro fine. Sei Eroi, in dorso alle maestose
creature alate, si tuffarono giù per le calde gole dei Sette Inferi
di Alasgorth, alla ricerca di un potente artefatto creato in
tempi dimenticati, quando i Draghi dominavano solitari quelle terre
un tempo selvagge. Si narra che solo uno dei Sei riuscì ad emergere
dalle maligne fauci magmatiche, sfuggendo all’ira di Hail Vas,
padrone di quelle lande di dannazione e Signore dei Morti. La luce
espressa dall’artefatto ebbe modo di risplendere sotto un cielo
oscuro, concedendo così la discesa di creature pure al servizio dei
Cinque Divini, pronte a donare alle terre dei Draghi un’ultima
possibilità, prima che lo scontro potesse distruggerle.
Nuovi
eroi nascono continuamente, ed altrettanti abbandonano precocemente
questo mondo. Solo coloro muniti del fulgore divino potranno recare
lo stendardo della luce ove le ombre dimorano.
Estratto dei Canti della Creazione,
Glandirn
Capitolo I
Memorie di un’orfana
L’alba
del nuovo anno venne cullata dal sussurrante vento del nord,
Elhòandar, ad accompagnare le prime sfumature del duecento
trentatreesimo anno di pace dopo la guerra, secondo gli archivi
popolari del Regno di Radharon. Un velo di luce donava ancora vita ai
contorni del paesaggio innevato fuori dalle mura di Èndhàr’ Kròn.
Gelida
era la brezza che spirava nei pressi di una casupola nascosta da una
schiera di alberelli bianchi, posta all’ombra della montagna ricca
di giacimenti di ferro, quando del suono dei picconi battenti
non vi era più eco e tutto taceva, concedendo di udire il
lamento insofferente di una infante, accompagnato dal rintoccare
costante di alcune gocce sul pavimento dell'abitazione.
All’esterno della struttura, un uomo dalle vesti rosse sostava. Il
suo crine castano chiaro cadeva sulle spalle, ed una barbetta incolta
ne avvolgeva le guance: i primi cenni degli inverni trascorsi fin
troppo anticipatamente la sporcavano di rare chiazze bianche. Comuni
erano gli abiti che portava indosso, rendendo onore alla sua carica:
una lunga tunica con lacci neri all’altezza del colletto e dei
polsi, ed una cintura bruna alla vita, alla quale si trovava
agganciato il fodero di un pugnale la cui elsa – così come la
custodia stessa – mostrava l'esigua manifattura tipica di uno
strumento di scarso valore. Nella mano sinistra teneva il manico di
un piccolo cesto, sul quale era adagiato un panno bianco ben
pulito; la mano destra, invece, si trovava sospesa a mezz’aria,
semichiusa ed immobile, a pochi centimetri dalla porta di legno
rinforzato.
Il
rumore di un vetro infranto squarciò la calma di quel pomeriggio
ormai moribondo, seguito dal forte gracchiare di alcune cornacchie in
fuga dagli alberi circostanti; gli occhi cinerini dell’uomo, ora
spalancati, non poterono che cogliere di sfuggita una figura
ammantata in vesti scure precipitarsi nel fitto del bianco bosco. La
mano dell’uomo roteò istintivamente il pomello della porta,
scostandola rapidamente: dentro, il buio soffocava ogni cosa,
nonostante alcune candele disposte nella stanza creassero minuscoli
isolotti di luce in quel mare di oscurità.
Il
passo incerto dell’individuo fece scricchiolare le assi del
pavimento di legno; lentamente, quasi quei rumori fossero in grado di
dar voce ai sussultanti battiti del suo cuore. Alcuni dei lumi
rischiaravano un letto sul fondo della stanza: sulla sinistra di
questo si trovavano una finestra infranta, l’unica ad essere
aperta, ed un secchio da cui colava un rivolo vermiglio; tra le
lenzuola del letto sporche di sangue una neonata piangeva, stretta al
seno sinistro di una donna. I lunghi capelli castani le
coprivano parzialmente il lattescente viso, pallido, fin troppo
esanime per un corpo che aveva l'aspetto d'essere appena spirato.
L'elsa di un pugnale troneggiava sul suo ventre, ed il sangue colava
ancora dalla mortale ferita che le era stata inferta, impregnando le
lenzuola sino a gocciolare sul pavimento.
Immobile
permase l’uomo in rosso, ora con lo sguardo basso, nel
tentativo di distogliere l’attenzione da quell’orribile scena: il
cesto tenuto nella mano sinistra gli scivolò senza che fosse in
grado di accorgersene. Una volta giunto a contatto con il pavimento,
andò ripiegandosi sul lato destro, lasciando così fuoriuscire dal
suo interno un mazzo di rose rosse ed alcune mele, che sui fiori
si riversarono come una valanga, schiacciandoli.
Rimase
a lungo inerte ai piedi del letto, mentre uno sguardo tormentato
posava sulla bambina stretta alla madre; infine, i suoi passi
spezzarono ancora una volta il silenzio all’interno della casa,
arrestandosi solo dopo aver raggiunto il lato destro del
giaciglio. Portò una mano al viso della donna, liberandolo dai lisci
capelli, quasi volesse osservarla per un’ultima volta. Dai grigi
occhi presero a sgorgare sofferte lacrime, mentre copriva quelli
della giovane, chiudendoli dolcemente.
Con
le mani tremanti avvolse il corpicino della neonata, allontanandolo
dal cadavere della madre per sincerarsi delle sue condizioni; le
iridi di quella bambina avrebbero lasciato chiunque sorpreso: erano
come due piccole sfere di
un intenso colore purpureo, quasi delle ametiste fossero state
incastonate su un drappo cremisi.
Intanto,
la piccola si era tranquillizzata fra le braccia, ora meno agitate,
dell’uomo, e solo quando egli si rese conto che pareva essersi
abbandonata alla stanchezza, l’avvolse nel panno che copriva
il cesto che si era portato dietro. Dopo aver disposto all’interno
del canestro un piccolo lenzuolo, vi adagiò la neonata,
lasciandola al sicuro sopra il tavolo, mentre lui si occupava di
riordinare l’abitazione.
Liberò
un armadio degli inutili utensili che l’appesantivano, gettandoli a
terra, e trascinò il mobile a protezione della finestra,
bloccando quella via d’accesso alla casa; poi, mentre frugava negli
altri arredi, riuscì a recuperare una chiave nascosta
all’interno di un cassetto vicino al letto, ove il corpo della
donna riposava inerme, ed a tratti pareva quasi semplicemente
dormire. Recuperato il cesto e donato un ultimo sofferto sguardo a
colei che aveva amato, si avviò verso la porta, contrastando uno
sbuffo gelido che si era avventurato nell’abitazione, spegnendo le
candele che mettevano in mostra l’orrore vissuto dagli occhi
dell’uomo.
I
pesanti passi infransero ancora una volta l'angosciante silenzio,
mentre egli usciva all’esterno tenendo stretto il cesto con la mano
sinistra; intanto, con la destra roteò la chiave all’interno
della toppa della porta, provocando un sinistro schiocco emesso
dall’ingranaggio della serratura, come se non fosse stata la
semplice porta di una casa a chiudersi, ma quella di un antico
mausoleo.
Il
sole era ormai morto, lasciando spazio all’incalzante notte priva
di luna, e l’uomo affrettò il passo in direzione della cittadina,
mentre copiosi rivoli abbandonavano i suoi grigi occhi, segnando
le guance barbute. Silente era intanto la piccola, che sino a
quel momento aveva riposato. Ora osservava colui che la portava via
da quell’incubo con occhi velati da un'affascinante ma al contempo
inquietante bellezza, come se un rubino e un’ametista fossero state
fuse: lo guardava incuriosita, come se desiderasse comprendere
il motivo della sua tristezza. L’uomo ricambiò quello sguardo,
dopo aver passato il dorso della mano ad asciugare il viso, tenendo
ancora stretta la chiave che solo adesso, mentre sosteneva
l'espressione della piccola, ripose all’interno di una tasca
nascosta della rossa veste.
Ben
presto le mura di Èndhàr’ Kròn si sarebbero stagliate imponenti;
ai piedi di esse e del cancello principale, ormai prossimo ad essere
chiuso, una lunga fila di contadini pareva essere di ritorno
dall’ennesima faticosa giornata di lavoro, appesantita dal gelo di
quei giorni. Alcuni carri sostavano accanto alla muratura,
perquisiti da quattro Guardiani in armatura completa e dai
lunghi mantelli rossi. Gli elmi che indossavano coprivano quasi
interamente i loro volti, lasciando visibili unicamente gli
occhi e la bocca; ognuno di essi portava appesa al fianco sinistro
una spada lunga, occultata appena dallo scudo torre, che
imbracciavano con naturalezza. Sul dorso della protezione era
raffigurato il simbolo del Regno di Radharon, proprio come
all’altezza dei pettorali dell’armatura e del mantello: una
corona d’oro attraversata da una spada lunga dall’elsa rossa, con
la lama rivolta verso il basso.
Oltrepassato
facilmente il cancello d’ingresso, il figuro proseguì sino ad
una struttura in pietra che si ergeva su due piani; altrettanti
soldati sostavano ai lati della porta d’ingresso, sul cui stipite
era inciso il simbolo reale. Un amaro saluto venne rivolto alla copia
posta a presidiare l’uscio, prima di proseguire oltre,
all’interno di un corridoio che si prolungava sino a due rampe di
scale; sulla sinistra e sulla destra si affacciavano quattro
porte, ed egli avrebbe varcato la soglia della prima sulla destra.
All’interno
della stanza era accomodato un uomo dalle vesti color giada, con
un’elegante maglia munita di lacci aurei sul colletto, e dei
pantaloni stretti accompagnati da due scarpe della stessa tonalità
del grano; i suoi tratti erano invecchiati da un pizzo ben curato e
da capelli lunghi dello stesso colore della notte, mentre gli occhi
castano chiaro si adagiarono sul nuovo arrivato. Il suo tono si fece
chiaro e deciso, tipico di chi ha affrontato una lunga giornata colma
d’impegni, e s’attende brutte notizie: «Sùilad. Colgo
parecchia fretta nel vostro porre passo in questa stanza, ed
immagino non siate qui per una visita di piacere. Parlate, vi
ascolto!» disse tutto d'un fiato.
«Gowernon,
amico mio...» farfugliò l’uomo, tentando di frenare le
lacrime, mentre il Guardiano si faceva più cupo in volto.
«Ditemi
cosa è accaduto... e chi è la piccola dentro il cesto?» domandò,
sorpreso di vedere quella bambina.
Intanto
la neonata era rimasta in silenzio, ed incuriosita pareva farsi
attrarre da tutto ciò che la circondava. Lo sguardo dell’uomo
dalle vesti rosse ritornò sul corpo della piccola: l’espressione
serena della bimba non poteva che rattristare ancor più i sofferti
pensieri dell'individuo.
«Ho
bisogno del vostro aiuto: poco fuori dalle mura di Èndhàr, nel
bosco, si trova una casupola... ho impedito ogni via d’accesso, e
questa è l'unica chiave che sblocca la porta» disse mettendo in
mostra l'oggetto. «Giungo dalla dimora di Rainsun... dama
Leirien... lei... lei è...». Un profondo silenzio piombò nella
stanza, mentre l’uomo, con la testa bassa, non riusciva a
pronunciare quella parola. Il soldato provò a rassicurarlo,
scuotendolo appena, invitandolo a proseguire nel proprio racconto.
«Parlate!
Che cosa è accaduto alla giovane Leirien? Dove si trova Rainsun?»
esclamò agitato, con in volto l’espressione del sospetto.
«L-lei...
È spirata... Un’ombra correva lontana, e mi sono precipitato
dentro casa il più presto possibile... ma era troppo tardi,
Gowernon: ella giaceva sul letto in una pozza di sangue. Un pugnale
l'ha strappata a questo mondo. La finestra era rotta... La
piccola stringeva ancora il corpo della madre» provò a
spiegare l’uomo con tono afflitto, ma presto le lacrime tornarono a
sgorgare con più vigore sul suo viso, abbandonando le gote ed
infrangendosi sul pavimento in pietra.
Lesto,
il soldato si diresse appena fuori dalla porta, e la sua voce si fece
possente, mentre impartiva chiari ordini ad altri tre posti poco
fuori dalla stanza: «Voi, venite qui, subito!».
Il
pesante rumore di armature rimbombò per tutto il corridoio,
mentre Gowernon si dirigeva al tavolo, dal quale aveva recuperato
l’elmo ed una spada lunga, sul pomolo dell'elsa troneggiava
l'incisione di un elmo argenteo: era il simbolo dei Custodi delle
Porte, soldati scelti per la loro attitudine al comando.
«Tornate
a casa: ci occuperemo noi della faccenda. Verrò a farvi visita
appena possibile... lo troveremo. Scopriremo chi è stato, amico
mio!».
Detto
questo, il Guardiano fece per allontanarsi, sebbene le parole
dell’uomo lo richiamarono ancora una volta:
«Gowernon...
Prendete questa, vi servirà» disse fra i singhiozzi,
allungando in sua direzione la chiave dell’abitazione.
L’amico
gli volse un cenno del capo, prima di allontanarsi in compagnia dei
suoi sottoposti; il tintinnio delle loro armature si confuse
presto con il resto dei rumori esterni alla caserma.
L’uomo
dalle vesti rosse venne lasciato nuovamente da solo; davanti ai suoi
occhi unicamente quel cesto, ove la figlia della donna che aveva
segretamente amato dormiva. Solo pochi altri istanti in più avrebbe
trascorso all’interno di quella fredda stanza, prima che fosse
riuscito a farsi forza, e si fosse deciso ad allontanarsi,
tenendo tra le braccia il cesto. Camminare per quella città non
era mai stato così malinconico e privo di senso come in quel
momento: il Quartiere delle Porte scorreva lentamente davanti ai suoi
occhi, ed i tetti rossi delle case, coperti parzialmente dalla neve,
lasciarono ben presto spazio ad altri molto più ampi ed innevati; le
stesse abitazioni, man mano che l’uomo proseguiva verso il
centro della città, si facevano più grandi, donando una
maggiore oscurità a quella strada principale che andava percorrendo.
Agli angoli dei palazzi poteva scorgere qualche figura intenta ad
accendere le lanterne fuori dalla propria dimora, o bambini in
festa correre per i vicoli, mentre i Guardiani consigliavano
loro di ritornare dalle proprie famiglie. Il tediato passo si arrestò
solo davanti a degli scalini: una sottile coltre bianca affollava i
bordi, ed egli risalì quei cinque gradini quasi stesse scalando una
montagna, prima di svanire stancamente oltre la porta.
La
casa in cui si trovava gli era appena stata affidata: pochi mobili
occupavano le stanze della ristretta dimora, ed il tutto permaneva
avvolto in una grigia atmosfera; uno spicchio di luce filtrava
all’interno della sala da pranzo, concesso dalle distanti lanterne
degli edifici posti dall’altro lato della strada. L’uomo agitò
stancamente la mano a mezz’aria, mentre andava emettendo
sussurri dalle sue fini labbra, prima che le candele posate sul
tavolo si accendessero istantaneamente, illuminando lentamente
la camera; un piccolo camino era sito davanti al tavolo, una finestra
sulla destra ed il solito piano per cucinare sulla sinistra. Stese
delicatamente la piccola sul tavolo, ancora avvolta nella calda
coperta, e posò anch’egli la testa sulla lignea superficie,
perdendo il suo sguardo nel vuoto.
Non
sapeva cosa avrebbe fatto da quel momento in poi, né tanto meno cosa
il futuro avrebbe riservato per lui e quella piccola creatura. Ma,
quando la bambina gli pizzicò energicamente l’orecchio,
costringendolo ad immergere i suoi occhi cinerini in quelli purpurei
di lei, tutto parve d'un tratto chiaro. Comprese il suo destino:
sarebbe stato al suo fianco.
Da
quel tragico giorno gli anni trascorsero rapidamente, e l’uomo si
prese cura della piccina, crescendola con tutto l’amore che
poteva donarle. Le diede il nome della defunta madre, Leirien,
affinché la piccola potesse portare con sé parte di ciò che la
legava alla sua famiglia. La casa divenne ben presto accogliente,
abbastanza per offrire alla bambina un luogo dove crescere
serenamente.
Leirien
mostrò sin da subito una spiccata capacità di ascolto: ogni qual
volta l’uomo aveva da raccontare qualcosa, lei si sedeva
incuriosita, con le gambe incrociate ed un sorriso avido di avventure
sul viso. Pendeva dalle labbra del cantastorie, che le narrava le
novelle più incredibili che parlassero di quelle terre: dai lontani
racconti sui Draghi alle leggende popolari.
«I
popoli continuano a cercarli nei cieli, pur consapevoli che essi
abbiano abbandonato queste terre oltre duecento anni or sono...
Nessuno di questi folli ha mai pensato di cercarli ove un tempo gli
stessi Draghi riponevano in noi le proprie speranze: nei nostri
cuori!», soleva dirle con un
raggiante sorriso, quando domandava che fine avessero fatto quelle
maestose creature.
Fu
così che le venne impartita una basilare conoscenza sulle divinità
che nell'intera Draakhonsgaard proteggevano le diverse
popolazioni. Imparò il valore del sacrificio e s’innamorò
delle battaglie degli eroi di Èndhàr’ Kròn, comprendendo in
primis il significato di quell’appellativo che era sulle labbra di
tutti, ma del quale solo pochi rammentavano l’origine: si trattava
del nome che Lord Rinaar Searider, il primo Re di Radharon, aveva
scelto per la sua città. Sarebbe stato il simbolo della sua
impresa, ed avrebbe ricalcato il linguaggio degli Dei, come a
ricordare il passato che legava la Capitale alla celebre Glandirn.
Nel linguaggio degli Dei, comunemente definito Chelestian, aveva
il significato di “Approdo (Èndhàr) del Re
(Kròn)”. L'eroe che più amava di quei racconti era
indubbiamente Re Kamen, il terzo regnante di Radharon.
«La
storia narra dell’impresa che lo rese celebre in tutto il mondo
conosciuto. Si dice che il Re non volle impegnare l’esercito
in un’epica battaglia presso le terre ad ovest del regno: a
quel tempo i confini di Radharon giungevano sin poco oltre le Terre
di Pietra, che lui stesso aveva fatto costruire. Il resto era
composto da terre barbariche, abitate da popoli disorganizzati ed
ammucchiati in città prive di legge. Si narra che Kamen fosse ivi
giunto con il proprio bianco destriero e, disceso dinanzi ad un
grande esercito, avesse impugnato la sua affilata spada,
levandola alta verso il cielo. Il popolo credeva ciecamente nel suo
Re – così come oggi noi crediamo in Lord Arweinar – sebbene
nessuno confidasse in una possibile vittoria contro un nemico tanto
numeroso. Il sovrano affrontò degli avversari temibili: si dice che
fossero più di cento orribili creature assetate di sangue, e le
spade di cui erano munite potessero trapassare sino a tre uomini in
armatura. La sfida era sicuramente impossibile per un essere umano
comune, ma non per Kamen, poiché egli era un Re, ed aveva dalla sua
parte il sangue nobile di molte battaglie, oltre a poter vantare
antenati che avevano combattuto durante la celebre Guerra
degli Dei. Spinto dal suo immenso coraggio e dalla sua
invidiabile capacità sul campo, sconfisse le creature con abilità,
ristabilendo la pace momentanea!».
Ogni
volta che l’uomo giungeva a questo punto, Leirien balzava in
piedi e fingeva di essere il cavaliere che affrontava l’epica
contesa, saltando qua e là: ci voleva qualche minuto prima che
il sacerdote riuscisse nuovamente a farla sedere per proseguire il
proprio racconto. La piccola seguiva con attenzione ogni minimo
dettaglio, che riportava attentamente quando giocava all’interno
della propria stanza, e attendeva trepidamente il finale, quasi come
non l’avesse mai udito.
«Kamen
stabilì così un breve periodo di pace, eppure il nemico in
pochi mesi giunse nuovamente a turbare la quiete di Èndhàr’ Kròn:
un grande esercito minacciava l’assedio, e Kamen ancora una
volta scese in battaglia da solo, supportato solo dal proprio
destriero. Impugnò la sua spada e minacciò l’armata assalitrice,
presagendo la sua imminente sconfitta. La invitò a fare dietrofront,
per mantenere salve le loro vite. Tuttavia il nemico non accettò
facilmente le sue parole, e lo costrinse alla battaglia. Dopo aver
abbattuto cinquanta di quelle orribili creature, Kamen si preparò ad
affrontare l'impresa più grande di tutte: puntò la propria
lama verso il signore di quegli esseri, sfidandolo a duello!».
L’uomo
si prendeva ogni volta la briga di approfondire lo svolgimento dello
scontro, creando sempre un nuovo colpo di scena che poteva far
credere che il cavaliere non sarebbe riuscito a sconfiggere il
proprio nemico, che tra l'altro mai possedeva una reale volto; eppure
l’esito del duello era sempre lo stesso. Con tono da impavido
proseguiva: «La lama del Re trapassò il nemico, e quell’unico
colpo affondò facilmente le speranze dell’esercito ostile: la
vittoria di Kamen divenne leggendaria, ed il suo nome capace di
far tremare gli avversari più coraggiosi. Concesse il perdono a
quelle creature, esiliandole dal Regno di Radharon, e divenne
così l’eroe più celebre di tutta Èndhàr, e non solo,
aggiungerei!».
Leirien
batteva forte le mani al termine della storia, chiedendo che le
fosse narrata ancora una volta; eppure, quando il racconto terminava,
era sempre ora di cenare.
Crebbe
in armonia, sebbene le trame avventurose che l’uomo amava
raccontarle la spingessero al non rispetto delle leggi cittadine,
divenendo presto famosa tra i bambini del suo quartiere per la sua
smania di lottare. La piccola mostrava una grande forza ed
un’immensa determinazione; non amava tenere i capelli lunghi, e
solitamente scorrazzava per le vie del quartiere brandendo uno
spadino di legno fattosi costruire da Gowernon, sotto richiesta
del sacerdote. Grazie alla sua rapidità ed alla sua forza, amava
imporsi sui bambini del vicinato, costringendoli spesso ad
affrontarla tutti assieme. Il risultato, che si trattasse di uno
sfidante oppure di dieci, non mutava: la piccola metteva tutti a
sedere, lasciando loro addosso diversi bernoccoli.
Non
trovando alcun degno avversario, passò dal combattere tutti al
diventarne l’autoproclamato capo, e questo avvenne dopo aver
sconfitto Irdan Olvirion, un ragazzino della sua stessa età, dal
viso tondo e di bell’aspetto, con lunghi capelli castano chiaro
tendenti al biondo, e due piccoli occhi color del mare e dall'aria
furba. Egli era il più alto del gruppo, un vero gigante agli occhi
della piccola.
Lo
scontro si svolse senza preavviso e senza esclusione di colpi:
Leirien desiderava ottenere il controllo di quel piccolo gruppo di
marmocchi, dunque Irdan doveva essere battuto, affinché lei potesse
sentirsi proprio come Kamen. Armata del suo spadino e pronta a tutto,
la piccola si presentò all’interno di un vicolo poco distante
da casa; quello intanto discuteva vivacemente insieme ai suoi
compagni di gioco. La bimba dagli occhi di porpora si mise in posa
davanti al suo avversario.
«Sir
Irdan, ho sentito parlare di voi... Dicono che siete uno forte, ma io
non ci credo: secondo me non valete molto!» gli urlò contro
spavalda, sfoggiando i termini migliori in suo possesso.
«Tu...
Chi sei? E perché parli come i grandi?!» le domandò in risposta,
sorpreso da tutto quel fare inadatto per una bambina, e
specialmente per una femmina.
«Siete
stupido o cosa?! Io sono grande, abbastanza grande da battervi! E
poi... io sono conosciutissima! Lo stesso Re Arweinar ha chiesto
il mio aiuto per salvare Èndhàr’ Kròn! Sto radunando un gruppo
di valorosi eroi per suo conto».
«Se
ne sei convinta...» la snobbò «A me non importa... Vai a giocare
con le altre bambine: noi stiamo parlando di cose importarti!»
la canzonò divertito.
«Voi...
pagherete!» esclamò, scagliandosi come una furia contro Irdan,
agitando lo spadino sopra la sua testa.
Senza
esclusione di tirate di capelli, dita negli occhi e nel naso, morsi e
pizzichi, si esibirono in una bizzarra quanto assai accanita
lotta. Se le diedero di santa ragione, mentre i coetanei, che
sino a quel momento erano rimasti indifferenti, osservavano con
crescente sorpresa la forza di quella fanciulla. Nei loro
occhi poteva cogliersi un misto di ammirazione e di paura, ma nessuno
avrebbe mai avuto il coraggio d’ammetterlo. Stremati ed
affaticati dalla lotta, i due si ritrovarono fianco a fianco,
ansimanti e con lividi in tutto il corpo, ma ancora nessuno dei
contendenti era riuscito a guadagnarsi il titolo di vincitore.
«Allora,
vi arrendete?» domandò Leirien tra una tirata su con il naso e
l’altra.
«No,
mai contro una ragazza!» ribatté Irdan.
«Arrendetevi...
Sono stanca di picchiarvi!» quasi lo supplicava, mentre il
pugno destro centrava a fatica la spalla dell’avversario.
«Anche
io sono stanco di prenderle... Ma non posso arrendermi!»
rispose quello, mentre a stento teneva gli occhi aperti.
«Uffa!»
sbuffò infastidita. «Se vi arrendete, sarete il mio vassallo...
Che ne pensate?».
«Un
che cosa?» domandò con totale ignoranza.
«Uno
dei miei cavalieri fidati...» rispose, mentre un altro pugno
veniva indirizzato sul punto precedentemente colpito. «Allora?!».
«E
va bene! Però così mi fai male... Tu come ti chiami?» domandò
massaggiandosi l'arto dolorante, lasciando la presa.
«Leirien!
Quante volte devo ripeterlo?» gli urlò contro mentre si
rimetteva in piedi.
Il
bambino la guardò negli occhi, notando per la prima volta quanto
fossero strani, mentre indietreggiava appena tenendosi la spalla
destra.
«Ora
dovrei andare, Sir Irdan, avvisate i soldati: che rompano le
righe. Vado a pranzare, altrimenti mio padre si arrabbia!
Suvlad!».
«Si
dice Suilad...» esclamò Irdan aggrottando le sopracciglia.
Neanche
terminato di salutare, Leirien era già scomparsa alla vista dei
ragazzini, sfrecciando tra le bancarelle ed il costante via vai dei
cittadini della Capitale. Da quel giorno in poi, la ragazza strinse
una forte amicizia con Irdan che, effettivamente, sarebbe
divenuto il suo cavaliere più fidato.
CONTINUA SU....
Le ombre del Destino, Il Cavaliere dagli occhi purpurei
Capitolo II: Il ragazzo che conosce la guerra
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