G.G. Pintore
Gli Erranti del Destino: L'alba dell'Arcaico
L'era di privazione degli uomini è giunta al termine: una nuova rinascita li attende. L'Arcaico avrà la sua vendetta.
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(Edit del 11/06/2015)
Di seguito troverai la versione aggiornata di questo racconto.
Andando sul fondo, troverai il file originale destinato al contest. Avevo dovuto tagliare gran parte del narrato per arrivare perfettamente con le battute imposte.
Buona lettura|
(Edit del 11/06/2015)
Di seguito troverai la versione aggiornata di questo racconto.
Andando sul fondo, troverai il file originale destinato al contest. Avevo dovuto tagliare gran parte del narrato per arrivare perfettamente con le battute imposte.
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-
I -
Il
tradimento
Lasciva
e pigra, come un'onda che non trova la forza di raggiungere la riva,
la luce del sole si aggrappava ai confini dell'orizzonte, mentre
veniva lentamente scacciata dall'estasiante radiosità lunare. Quei
moribondi raggi parevano artigli che affondavano disperatamente nelle
carni di praterie sanguinanti.
Tutto
dava l'impressione di essersi improvvisamente fermato, persino i
battiti dei loro cuori, assopiti in quell'alienante quiete. Era un
momento immortalato nel tempo, come un ricordo incapace di sbiadire.
«Avvolgere
la luna ed il sole insieme nello stesso palmo... Sarebbe una visione
meno inebriante del restare qui, immobile su questo colle, ad
ammirare il vostro profilo baciato dal chiarore di entrambi gli
astri», confessò l'uomo. Alle sue spalle, il cielo si stava facendo
ormai profondo come l'abisso.
«Non
esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro elemento in questo
universo che possa negarvi tale visione: poiché io sarò qui, a
condividerla al vostro fianco. Neanche gli Dei hanno potere su ciò
che siamo, poiché noi
siamo parte di essi. Presto, anche questo creato avrà ciò che
merita... Le Eatryn saranno finalmente costrette ad inchinarsi a loro
volta alla volontà del destino!», sentenziò una risoluta voce
femminile, carica di sapere.
La
luce si assopì all'orizzonte, nel momento in cui anche la luna
soccombeva alla giunta di nubi cariche di piombo: la tempesta era
vicina, ed il cosmo pareva avvertire l'imminente manifestarsi di
entità capaci di soggiogare il futuro stesso di quelle terre.
Il
panorama di Ryll li incantò come se fosse la prima volta: le tre
alte torri elfiche, distanti circa cento metri l'una dall'altra, si
stagliavano a difesa del querceto in tutto il loro splendore, quasi
fossero delle lance luminose. Erano bardate di robuste e fiorenti
rampicanti, sulle quali, così come sui bordi degli spioventi tetti
conici, sbocciavano eleganti lanterne naturali, ove lucciole dai
riflessi violacei erano solite bearsi della genuina magia della razza
immortale, o gioire della sua straordinaria compagnia. Di tanto in
tanto era possibile intravedere anche qualche fata o folletto
aggirarsi per la struttura, attratti dalla luminescenza della stessa.
Volsero
un cenno alle vedette, che si affacciarono non appena lì notarono
farsi vicini, e ricambiarono cordialmente il saluto. In altri tempi,
lì avrebbero sicuramente raggiunti ai confini del bosco, e si
sarebbero intrattenuti in piacevoli conversazioni. Quella loro
impercettibile freddezza, era il chiaro sintomo che denunciava la
crescente decisione comune di lasciarsi alle spalle quel mondo, ormai
devastato dal progresso dei nuovi popoli. I loro antichi borghi, un
tempo incantevoli e curati minuziosamente, erano ora in via di
rovina; lì presidiavano pochi nostalgici membri, principalmente
giovani che non avevano ancora avvertito lo schiacciante
presentimento di appartenere già al passato.
La
cittadina, poco più di un villaggio, era appositamente sprovvista di
mura ed armamenti da guerra; la protezione degli abitanti era
affidata unicamente ad una ristretta cerchia di soldati. Le torri
avevano l'unico scopo di avvistare i Draghi, sebbene alcuna
precauzione fosse mai stata presa per contrastarli: nessun arma,
nemmeno di fattura elfica, avrebbe potuto placarli, se intenzionati
ad attaccare, oltre la magia.
La
stirpe immortale di Caylionel aveva però compreso che la furia di un
Drago, benché contenibile con l'ausilio delle arti arcane, fosse
sempre meglio evitarla; erano dunque più propensi ad appellarsi ai
loro incantesimi per sfuggire alle grinfie della creatura, piuttosto
che fronteggiarla. Avrebbero anche potuto ucciderla, ma non senza
perdere un ingente numero di vite; e la vita, per loro, era un dono
che non doveva essere sprecato.
L'accesso
di Ryll era composto da una coppia di ricurve querce che,
intrecciando i propri rami, creavano un'arcata naturale abbellita da
rampicanti in fiore; l'intera via era un trionfo di candidi boccioli
profumati che brillavano del riflesso lunare. L'ingresso era
sguarnito – come da tradizione elfica – poiché quella terra
apparteneva a tutti, ed allo stesso tempo a nessuno: i confini erano
superflui per una razza che si reputava parte stessa della natura.
Il
solo delinearli imponeva una limitazione alle proprie vedute; gli
stessi Elfi amavano dire: “ciò che si trova fuori dai nostri
orizzonti è spesso oggetto d'incomprensione; è per questo motivo
che abbiamo rifiutato di definirli. Così come un albero concede i
propri rami agli esausti viandanti del cielo, la terra offre i suoi
generosi frutti a coloro che camminano su di essa, purché la
rispettino”.
«Calpestiamo
la natura ad ogni passo: come possiamo definirci puri, se il nostro
semplice esistere comporta un male per tutto ciò che ci circonda?»,
recitò sarcasticamente l'uomo.
Quelle
stesse parole gli erano state rivolte proprio da un Elfo, durante la
sua prima visita a Ryll: per il mortale era stato come annegare in un
lago ghiacciato; si era sentito tremendamente colpevole di esistere.
Gli errori di pochi avevano condannato la sua intera stirpe ad una
truce etichetta.
Aveva
da sempre nutrito grande rispetto nei confronti di quella razza,
innamorato della loro raffinata cultura, la cura per ogni dettaglio,
la filosofia – argomento sul quale aveva divorato innumerevoli tomi
– ed infine la magia. Ma, sino ad allora, non aveva mai preso in
considerazione il fatto che, per gli Elfi, gli Uomini fossero stati
da sempre una minaccia per l'equilibrio del loro mondo.
Erano
ritenuti instabili, violenti, volubili e dispensabili per il ciclo
della vita. Erano stati addirittura paragonati ai Draghi, ma i
mortali avevano un vantaggio rispetto a questi ultimi: la rapida
procreazione. Difatti, in poco più di due secoli di esistenza, erano
riusciti ad incrementare a dismisura il proprio numero, quasi
pareggiando quello elfico, forgiato in millenni di evoluzione.
Appresero da loro ogni conoscenza sul mondo, plagiandola al proprio
volere.
Poi,
a dar prova della loro sconsiderata ed irrazionale indole, si
divisero in fazioni ed ingaggiarono cruente battaglie contro i propri
fratelli, soggiogati dalla sete di potere promessa loro dai Draghi.
Gli Uomini avevano dimostrato di essere costantemente alla ricerca di
un qualsiasi motivo per dare libero sfogo alla violenza.
Il
punto di vista del mago era cambiato notevolmente dal giorno di
quella lontana conversazione, quando la gioventù e lo splendore di
cui gli Elfi s'investivano lo avevano facilmente ammaliato,
rendendolo cieco. L'incontro di Janeris, una donna di solo carattere,
che vantava, per quanto lo disprezzasse, sangue elfico, aveva
stravolto tutte le sue concezioni, aprendogli la mente.
Lei
aveva sconvolto ogni sua certezza, aiutandolo ad aprire gli occhi
sulla verità. Ora soppesava ogni minimo dettaglio, e non poteva
sottrarsi all'idea di concedere finalmente una svolta alla sua vita,
e consegnare al mondo ciò che davvero meritava: era l'occasione di
dare uno scossone a Draakhonsgaard, e di rivendicare a gran voce la
propria esistenza.
«Ignorate
i loro futili discorsi», tagliò corto la compagna di viaggio,
volgendogli un sguardo severo. «Discrezione. Abbiamo giurato che
saremmo stati cauti sino al momento dell'incontro. Conosciamo a
malapena ciò che potremo fare e, molto probabilmente, ci sarà data
una sola occasione per portare a compimento il piano. Dovessimo
fallire, ogni nostro sforzo sarà stato vano. Hanno orecchie ed occhi
ovunque in questa città... evitiamo di sprecare questa rara
possibilità, cadendo preda dell'odio. Il nostro momento è vicino!».
«Sono
solo parole, Janeris. Non ho perso di vista l'obiettivo», ribatté,
concedendosi di ammirare le sue provocanti forme mentre lo precedeva.
«Anzi, esse contribuiscono a focalizzare la mia mente su di esso».
Si
scoprì schiavo di ogni suo gesto: era una creatura unica,
inafferrabile, indomabile. I lunghi capelli corvini danzavano con
eleganza, sfiorando con accennati boccoli i suoi tondi glutei. Le sue
sottili e rosse labbra erano inesauribili dispensatrici di affilata
saggezza. Gli occhi erano l'emblema della sua unicità: uno azzurro,
e l'altro violaceo, ad indicare la sua padronanza della magia.
Era
infatti usanza fra i maghi, in giovanissima età, applicare le doti
magiche su sé stessi, sì da comprovare il proprio potere. Molti
sceglievano di marchiare col fuoco arcano il proprio avambraccio
sinistro, altri l'addome o la schiena: un punto facile da celare,
all'occorrenza. L'uomo rifiutò la tradizione.
Janeris
invece, aveva una spropositata considerazione di ciò che si era
impegnata a divenire: aveva prediletto il suo occhio sinistro proprio
per ricordare a chiunque le stesse davanti chi fosse. Alcuni
sostenevano che esso possedesse proprietà sovrannaturali, e che le
concedesse la possibilità di scorgere attraverso il velo che
occultava i differenti piani della realtà agli occhi dei comuni
viventi.
La
chiamavano Chiromante.
Scivolarono
come sinistre ombre per le viuzze boschive del borgo, abbandonando le
lanterne gremite di lucciole per inoltrarsi nelle tenebre delle zone
meno popolate. Proseguirono cautamente, cercando di non dare
nell'occhio, benché fosse arduo eludere i sensi degli abitanti.
Inoltre, a differenza delle città normali, quelle elfiche non
dormivano, principalmente poiché gli stessi Elfi non ne avvertivano
il bisogno.
Godevano
ogni singolo istante della propria vita, trascorrendo poche ore della
giornata chiusi in una sacra meditazione; si diceva che fossero in
grado di vedere lucidamente nei propri ricordi, e che questo fosse il
segreto della loro immensa saggezza e lungimiranza.
Superato
un agglomerato di minuscole casupole incastonate nei larghi fusti di
querce secolari, dimore di fate, folletti ed altre creature silvane,
si tuffarono fra la vegetazione. Riuscirono ad accedere ad un celato
sentiero, parzialmente ostruito da rigogliosi rovi, che s'inoltrava
nel fitto del bosco che accoglieva la città.
I
loro passi erano più rumorosi, così come i loro respiri, poiché
costretti a movimenti macchinosi, onde evitare di rimanere impigliati
lungo il passaggio. In quello stesso momento avvertirono l'aria
raffreddarsi, il vento placarsi, e le prime gocce venir giù dal
cielo: presto avrebbe iniziato a piovere.
«Luxaar»,
sussurrò Janeris, soffiando poi sul proprio palmo, dove venne a
crearsi un globo bluastro. Fornì loro una minima fonte
d'illuminazione, ora che le tenebre erano assolute.
Man
mano che si addentravano la flora rinsecchiva, mostrandosi decadente
ed a tratti corrotta, con liquidi rossastri che, come linfa vitale,
sgorgavano dalle piante al sentiero. La vitalità dei colori lasciava
spazio ad ombre che inghiottivano la natura stessa, privandola della
propria solarità. I rovi parevano animarsi, con gli aculei che
puzzavano di sangue e putrescenza. Lo stesso terreno brulicava di
viscidi insetti, perlopiù cacciatori di carcasse.
<<Mi
chiedo perché il luogo d'incontro debba essere proprio ad un passo
da chi vogliamo affrontare. È un rischio considerevole...>>,
commentò l'uomo.
<<Vi
sono luoghi di cui neanche gli Elfi sono a conoscenza: esistono
segreti addirittura più antichi di loro. Egli ci attende ove i loro
occhi e la luce del sole non possono giungere. Ci servirà essere
vicini all'obiettivo, per conseguirlo più rapidamente. Fidatevi di
me...>>, rivelò Janeris, scostando sensualmente una ciocca
all'indietro con un fluido movimento della mano, puntando le sue
penetranti iridi in quelle del compagno. Riuscì a dissipare i suoi
dubbi.
Poi,
mille minuscoli occhi infuocati affollarono i dintorni del percorso,
accalcandosi sul macabro sfondo di quel luogo contaminato. Sembrava
fossero lì per giudicarli.
Le
folte fronde impedivano all'acqua piovana di filtrare nel fitto del
bosco, lasciandola però colare lungo i robusti fusti degli alberi
come veleno, sprigionando un tossico miasma.
«Qualcuno
ci segue», rivelò l'uomo guardandosi alle spalle. Poi aggiunse:
<<Come hanno fatto?>>.
Invitò
la donna ad affrettarsi. I rumori sul tracciato stavano crescendo;
inoltre, i globi luminosi che stavano utilizzando per ricercarli,
indicavano che in molti fossero sulle loro tracce.
«Da
questa parte!», fece strada lei, gettandosi in un fitto cespuglio di
rovi: vennero inghiottiti entrambi.
Gli
aculei non lasciarono alcun segno sulla loro pelle; anzi, parvero
quasi inconsistenti al tatto. Egli sorrise: quel luogo celava più di
quanto desse a vedere, ed era ormai chiaro che fervesse di potere
arcano. Riusciva a percepirlo, estraniandosi dal percorso, pulsare
attorno a sé, come un cuore palpitante.
I
suoi pensieri furono interrotti da una brusca frenata: la via era
bloccata da un incrocio, ed ognuno dei sentieri appariva speculare a
quello appena percorso. Si sentirono smarriti.
«Ammetto
di aver sottovalutato il nostro contatto: ci sta richiamando,
espandendo il proprio potere per farsi trovare. Una mossa
azzardata... ci tirerà dietro l'intero Circolo Arcano!>>,
commentò irritato. Poi, superando la donna, aggiunse: <<Lasciate
fare a me: Iakulu hyream!», evocò a gran voce l'incantatore,
protendendo le mani in direzione delle tre vie: dai suoi palmi
scaturirono fuori sei dardi luminosi, che si divisero in coppie per
ogni deviazione, lasciandosi una candida scia ondeggiante dietro.
La
luce consentì loro di notare che le vie sulla sinistra fossero
potenzialmente errate, poiché quei globi svanirono avvolti da una
cupa tenebra, come se l'incanto fosse stato assorbito da qualcosa che
si celava al centro del sentiero; nessuno dei due aveva intenzione di
scoprire chi o cosa fosse la causa di ciò.
«Furbo!»,
commentò Janeris. Il compiaciuto sorriso che le marcava le labbra
svanì, quando s'incamminò sulla sua destra, giù per un sentiero
scosceso.
Alle
loro spalle si levarono grida di battaglia, soffocate presto da altre
di dolore; il clangore di lame cessò prima ancora di diffondersi
nell'ambiente.
Le
ombre in lontananza erano schiarite da colori differenti, mentre
l'energia che dimorava in quella natura corrotta sembrava starsi
animando sempre più, protendendosi anche su chi si stava
allontanando dalla zona dello scontro.
Janeris
si gettò per l'ennesima volta dentro i rovi, svanendo come poco
prima; quindi, si affrettò ulteriormente, lanciandosi in una
sfrenata corsa: a distanza intravidero due fiammelle verdognole,
poste ad indicare l'ingresso di una grotta che sprofondava nel
sottosuolo.
Ad
un passo dall'accesso, la terra si fece improvvisamente instabile, ed
una serie di robuste, rigogliose e vive radici frammentarono in più
parti il sentiero, avventandosi sugli incantatori: l'uomo ebbe la
meglio, divincolandosi, mentre Janeris venne catturata dalle liane,
che si avvinghiarono al suo corpo come una seconda pelle,
immobilizzandola.
La
natura pareva essersi ribellata, almeno ad un occhio inesperto; ma il
mago non aveva alcun dubbio su chi fosse l'artefice di quella potente
magia.
«Infine,
avete scelto il tradimento. Quale assurda e folle teoria vi ha
condotto su questa strada? Siete realmente conviti che quanto vi
attende nel sottosuolo sia meglio di tutto ciò che vi circonda?»,
esordì una voce soppesata, figlia di labbra che avevano fiato da
secoli. «La natura cela volti che noi vivi non dovremmo mai
scorgere, in vita. Rinunciate alla vostra ricerca, siete ancora in
tempo...».
«Cènidar...
che sorpresa>>, ammise il mago, disegnando un inchino con la
mano sinistra. Riprese dopo una breve pausa: <<Con che coraggio
trovate il diritto di giudicarci? Cosa potete saperne del dolore di
questa atroce vita mortale, voi che nell'immortalità attraverserete
il destino?! Siete stati prescelti, come pochi altri uomini, per
vedere lo splendore delle ere scorrere. Che cosa resta, invece, a noi
poveri ed inutili mortali? Siamo costretti a decadere, a sopperire
alle malattie, ad essere piegati dal tempo, sino a che la debolezza
ci trasformerà in inutili e vuoti involucri per vermi!». La sua
voce era carica di astio.
Seguì
con lo sguardo l'Elfo emergere dall'ombra, notando i suoi larghi
abiti abbandonare un colorito appassito per ritornare al consueto
verde acqua, proprio come la tonalità dei suoi occhi.
Ai
profani sarebbe parso un banale gioco di prestigio, ma era un trucco
semplice a dirsi, ma assai complicato da farsi: l'omogeneità della
tinta richiedeva grande abilità, affinché fosse in grado di
apparire come parte dei contorni del cupo bosco che li circondava. I
capelli castani erano legati in una coda dalle punte argentate, con
una solitaria ciocca dello stesso colore che gli cadeva davanti al
viso.
«Quel
che non vedete, amico mio, è l'immenso dono che vi è stato concesso
dalle Eatryn:
Pur
gli alberi si piegano alla volontà del vento,
così
le alte montagne, erose dal tempo,
gli
astri svaniscono dal cielo stellato,
ed
i vulcani s'addormentano, senza più fiato».
Recitò
melodicamente in elfico, facendosi più vicino con le braccia aperte,
in segno di amicizia. Il suo sguardo era carico di compassione, per
quanto il volto non si fosse increspato dalla fredda espressione
d'accusa che aveva mosso nei loro confronti.
Riprese
nel linguaggio dei due: «Avete ragione: abbiamo assaporato il
delizioso candore dell'alba di questo mondo; ma ditemi, chi vorrebbe
scorgerlo sfumare, attraversando la magnifica rinascita, così come
la terribile decadenza dei luoghi e delle persone amate? Ai più
fortunati è concesso salutare i propri ricordi fintanto che sono
ancora floridi».
«Ne
ho abbastanza dei vostri filosofeggianti discorsi! Viviamo le stesse
emozioni, questo è vero, ma noi siamo costretti a patire una
sofferenza immotivata. Non parlate di dolore, quando le Eatryn vi
hanno donato solo bontà e serenità!», ringhiò, scartando di lato
l'ennesima radice che gli si era avventata contro. «Ponete fine al
vostro incanto, e liberatela: vi risparmierò solo poiché siete
stato la mia unica guida per molto tempo. Fate appello per un'ultima
volta alla vostra estrema saggezza, Elfo: dispensate per voi stesso
le parole che pronuncereste per farci desistere!».
«Liberarla
significherebbe condannare il mio popolo, oltre che la vita che nasce
su queste terre. Bontà e serenità... Voi siete la dimostrazione che
gli Uomini si privano di esse con le proprie mani. Credevo avreste
saputo dimostrare alla mia gente che si sbagliava sul conto della
vostra razza, che vi era del buono in creature tanto fragili. Invece,
avete dato prova del fatto che il loro giudizio sia insindacabile.
Siete una piaga per questo mondo, creature capaci solo a distruggere
tutto ciò che le circonda!», ruggì Cènidar, prima di sollevare i
palmi verso il mago.
Il
terreno si frammentò davanti ed alle spalle dell'avversario; dalle
fratture saettarono fuori altre radici, questa volta più robuste, ma
anche più lente.
«Iverust
edorth!»,
pronunciò solennemente l'uomo, puntando indice e medio della mano
destra in direzione dell'Elfo, mentre gli si faceva vicino, scansando
agilmente gli ostacoli.
Dalla
punta delle dita unite sgorgò un raggio violaceo macchiato da un
riflesso color pece, che centrò uno schermo di luce creato
tempestivamente dal suo bersaglio, senza che pronunciasse alcuna
formula.
«Forse
avete ragione, maestro...», aggiunse sostenendo lo sforzo
dell'incanto, contrastando la strenua difesa di Cènidar. Nella mano
sinistra intanto aveva preparato un vorticoso globo smeraldino, che
si portò davanti alle labbra: «Kyma
ànemos!»,
recitò, soffiandovi sopra.
La
sfera sfrecciò sino alla barriera dell'Elfo, dove esplose in un
prorompente boato, che si fece eco insieme ad un frastornante tuono.
I tre vennero sbalzati all'indietro dalla potenza generata
dall'incontro delle diverse energie, mentre un potente lampo
illuminava a giorno il luogo dello scontro.
Il
gioco di luci che scaturì dalla fusione delle loro arti arcane
illuminò l'ambiente circostante, rendendo visibile la loro posizione
da diversi chilometri di distanza, così come quel rombo fu in grado
di protrarsi sino alle terre più lontane, ancor più feroce e
intimidatorio del ruggito di un Drago.
-
II -
L'Arcaico
La
pioggia si era riversata sul campo di battaglia come una violenta
cascata, riuscendo ad avere la meglio anche sui robusti rami
dell'antico bosco.
Gli
effetti degli incanti a cui avevano fatto affidamento i due
incantatori vennero meno; le formule magiche erano state sostituite
dal rombo dei tuoni e gli effetti di luce soffocati dall'accecante
bagliore dei lampi.
Cènidar
giaceva a terra. Gli occhi sbarrati dal dolore roteavano privi di
ragione; mentre le mani, premute sulle sue orecchie, non avevano
impedito alla linfa vitale di sgorgare copiosamente attraverso le
dita. Il suo liscio viso si trasformato in una maschera di sangue,
nel frattempo che il suo corpo veniva animato da violenti spasmi di
sofferenza.
I
mortali, invece, erano riusciti a cavarsela con poco: la caduta gli
aveva causato qualche escoriazione ma, oltre alla botta subita,
accusarono solo qualche attimo di assoluta confusione, con
conseguente perdita momentanea dell'udito. Ogni suono si era ridotto
ad un intenso fischio.
Poi,
quando i sensi si furono finalmente riassestati, l'Elfo, che intanto
aveva riaperto gli occhi e levato alta la mano destra in un pugno,
venne raggiunto fulmineamente dal mago che, premendogli il palmo sul
viso, scandì ferocemente: «Tenebrignis!».
Una
rovente fiammata investì il volto dell'inerme vittima,
carbonizzandolo, mentre con l'altra mano l'uomo infierì sul suo
petto, incendiando gli abiti. Neanche l'acqua piovana ebbe la forza
di spegnere il fuoco. Un fitta nube di condensa di levò attorno ai
contendenti, inghiottendoli.
«Inizierò
col distruggere una falsa guida!», sentenziò l'uomo con un ghigno
soddisfatto.
Placò
l'immenso e distruttivo flusso di energia arcana unicamente quando si
rese conto che il proprio potere fosse ormai prossimo al
prosciugarsi. Anche il solo respirare gli risultò arduo.
Cadde
in ginocchio accanto al suo avversario, ansimante. Gli dolevano le
braccia per lo sforzo, ed i palmi erano stati ustionati in più
punti: le fiamme non avevano risparmiato neanche il suo corpo, così
come i suoi abiti.
Nonostante
ciò, non aveva avvertito alcun dolore, benché avesse riportato
diverse ferite. La foga del momento, e lo sfrenato desiderio di
prevalere su colui che per molti anni gli aveva insegnato tutto ciò
che ora conosceva, erano stati più forti della ragione e
dell'istinto di sopravvivenza stesso.
Janeris,
precipitatasi su di lui, fece per tirarlo su, ma non ebbe il tempo di
avvisarlo di quanto il suo occhio magico avesse scorto: il cadavere
carbonizzato di Cènidar si gonfiò, deformandosi celermente in
numerose ed anomale protuberanze. Poi, all'improvviso esplose,
scagliando ovunque ciò che restava della sua orrida carcassa.
provocando l'ennesimo boato assordante.
Entrambi
avvertirono una moltitudine di minuscoli aculei conficcarsi nelle
loro schiene, mentre cadevano a terra, prede di una delirante
debolezza. Percepirono gli aghi farsi largo sotto la pelle, sino a
mordere i loro muscoli. Gli inflissero un dolore lancinante.
«Che
la tua anima possa essere dilaniata nei Castighi,
bastardo di un Elfo!», inveì Janeris, battendo un pugno a terra per
tentare di contenere il tormento e sfogare la rabbia. La sua voce era
rotta dalle fitte.
L'uomo,
benché fosse anch'egli gravemente ferito, accorse in aiuto della
compagna. Notò che numerose piccole spine l'avevano colpita, ed una
profonda escoriazione solcava il suo ventre, dal quale continuava a
sgorgare un rivolo di sangue. La ferita pareva essersi infettata.
Quella
lesione le era stata inferta dalle spinose radici di Cènidar:
l'esplosione causata dallo scontro magico le aveva violentemente
spinte contro il suo corpo. Dell'immortale ora non restava che un
appiccicoso liquame verdognolo disseminato per il sentiero.
«Dobbiamo
raggiungere la grotta... al più presto. Non è molto distante...»,
mugolò l'Umana, stringendo i denti.
«Fermiamoci:
non possiamo proseguire oltre in queste condizioni!», l'ammonì il
compagno.
«Ma
non possiamo neanche tornare indietro!», fece notare lei,
aggiungendo poi, dopo essersi tirata su con le poche forze che le
rimanevano: «Egli potrà aiutarci. Dopotutto, il nostro fisico
mortale è di gran lunga superiore a quello elfico... Datemi una
mano: non intendo crepare accanto a questo rifiuto!».
Il
mago accordò, ma non prima di averle fasciato l'addome con le sue
bruciacchiate maniche, che strappò prontamente. Si recriminò
d'esser stato tanto sciocco per aver consumato in una sola volta
tutte le proprie energie. Ora era costretto a risparmiarle, nel caso
il nemico li sorprendesse nuovamente. Non possedeva certamente le
conoscenze magiche in grado di guarirla; ma, con un briciolo di
potere in più, sarebbe stato quantomeno capace di arrestare
l'emorragia e disinfettare la ferita.
La
prese cautamente sottobraccio, fungendole d'appoggio, mentre
s'incamminavano verso l'ingresso dell'antro. Cercò di facilitarle i
movimenti, onde evitare di farla sforzare troppo. Sentiva il suo
cuore battere all'impazzata, come se tentasse disperatamente di
aggrapparsi alla vita.
Le
fiammelle verdognole, racchiuse fra le fauci di due gargoyle incisi
nella roccia, li raggiunsero, gravitandogli attorno; poi, crescendo
d'intensità, fecero loro strada giù per il lungo cunicolo scosceso.
All'interno della cavità vigeva un freddo rigido, che rafforzava la
sensazione delle energie che scemavano ad ogni passo; le gambe erano
pesanti ed il respiro affannato. Credettero di star raggiungendo il
centro della terra.
Janeris
prese a vaneggiare, pronunciando vaghe parole in un linguaggio che
differiva da ogni altro mai udito prima. Neanche il mago era a
conoscenza di quell'oscura lingua che la donna stava borbottando,
come fosse una strana ed inquietante litania. Sembrava prossima allo
smarrire la propria mente.
Ebbero
l'impressione di star scendendo da ore, quando un'intensa luce tornò
ad infastidire i loro occhi, ormai abituati alle tenebre. Quando
furono in grado di focalizzare la vista, videro che il cunicolo si
apriva in una grotta circolare, munita di tre grandi bracieri
scolpiti nella roccia, al cui interno ribolliva della lava. Una
passerella di pietra conduceva ad un altare circolare, posto al di
sopra di una pozza color pece.
«Non
c'è nessuno...», constatò l'uomo, guardandosi attorno sbigottito.
«Siamo in trappola!»
«Ti
sbagli, umano», echeggiò una tronfia voce neutra, mentre dalla
pozza si levava una densa nube fatta d'ombra dai riflessi violacei.
Non aveva un'esatta forma: si agitava come fumo, aleggiando attorno
all'altare, ma senza oltrepassare i bracieri. «Qui risiede molto più
di quanto siete in grado di scorgere. Le vostre anime mortali non
sono capaci di cogliere le sfumature di questa realtà, poiché
assopite nell'illusione della vita che alcuni degli Eatryn hanno
voluto imporvi sin dalla vostra nascita. Eppure, gli audaci possono
oltrepassare il velo di menzogna che oscura anche la vista dei più
saggi, fra di voi».
«Non
ho tempo per intrattenermi in discussioni filosofiche. Janeris mi ha
detto che avete stretto un accordo: voglio sapere come consolidarlo,
e divenirne parte», disse d'un fiato il mago. Percepiva senza sforzo
alcuno le immense energie arcane racchiuse all'interno di quella
nube, ed era consapevole che, qualsiasi cosa l'entità fosse, erano
bel oltre le sue possibilità. «Anche se, ammetto di essere curioso
di conoscere la vostra identità».
«Sono
tutto ciò che vorreste essere. L'unica cura per la piaga che vi
rende tanto deboli, e riduce i vostri simili in polvere. Mi avete
cercato, ed io posso donarvi ciò a cui tanto a lungo avete ambito:
l'immortalità», rispose facendosi più imponente. Fra le ombre si
schiusero due occhi dalla tonalità acida. «Il potere a cui avrai
accesso sarà immenso, ben oltre ciò che potresti anche solo
immaginare. La tua immortalità sarà assoluta: nessuna lama comune
potrà scalfirti, alcuna magia piegarti, ed il tempo diverrà per te
un valido alleato. Temeranno ciò che diverrai. I deboli
s'inchineranno al tuo cospetto, mentre i tuoi nemici cadranno sotto
la tua collera... Nessuno potrà fermarti, e la tua vendetta potrà
finalmente compiersi!».
«Una
proposta generosa... Cosa volete in cambio, e che ci guadagnate?».
«Nutrite
dei sospetti nei miei confronti: è ragionevole. Ma i nostri piani
coincidono: siamo entrambi dei reietti, fulgide menti che hanno
deciso di opporsi alla tirannia delle Eatryn». Il duo acido si fece
più intenso. «Ma, affinché il nostro piano possa compiersi, dovete
divenire qualcosa di diverso, immune allo sconsiderato giudizio di
chi ti ha generato. Devi avere nuova vita. Concedimi la ragazza... e
la tua anima. Non ne avrai più bisogno, una volta raggiunta la
perfezione!», lo invitò. Al centro della nube si aprì un percorso
che conduceva all'altare.
«Temo
questo scambio sia infattibile. È troppo ciò che mi chiedete»,
rispose il mago.
Janeris
abbandonò d'un tratto la presa, cadendo rovinosamente a terra. Dalla
sua bocca aveva iniziato a sgorgare un rivolo di sangue verdognolo.
L'uomo
la chiamò più volte, senza ricevere risposta. Il battito si stava
inesorabilmente affievolendo: il cuore aveva iniziato a contrarsi ad
intervalli irregolari.
«Vi
è sempre un prezzo da pagare: qual'è quello per alleviare le sue
sofferenze? Io posso salvarla. Posso salvare ambedue», proseguì la
tetra voce. La sua pareva più un'unica estrema soluzione, piuttosto
che un invito.
«Salvarci
da cosa?», chiese stringendo a sé la compagna.
«Dalla
morte. Janeris è stata infettata dalla magia elfica, attraverso un
sortilegio proibito dallo stesso popolo di Caylionel. Gli Elfi sanno
essere vendicativi, quando vogliono. Puoi definirla una maledizione,
se vuoi. Non sei ancora in grado di rimuovere il potente veleno che è
stato iniettato nel suo sangue... così come nel tuo!>>, rivelò
l'entità.
“Infine,
con la vostra sorprendente abilità, siete riuscito a giocarmi un
ultimo, infame e letale tiro mancino, maestro. Rammenterò i vostri
preziosi insegnamenti, Cènidar”,
pensò il mago, stringendo i denti. Avrebbe voluto prevedere quella
mossa, ma si era lasciato accecare dall'odio.
<<Presto
avvertirete uno sgradevole senso d'impotenza: i muscoli
s'irrigidiranno, impedendovi di muovervi, la gola si seccherà, i
tendini si spezzeranno uno dopo l'altro; la vostra mente si perderà
gradualmente in un vorticante baratro, dove tutto ciò che siete
svanirà, consumando i vostri ricordi. Poi, rimarrete intrappolati in
un limbo mentale, ma i vostri sensi continueranno ad essere vigili:
sentirete, vedrete, e proverete dolore. I vostri organi interni si
consumeranno, corrosi dal veleno, e la vostra pelle brucerà,
spaccandosi. Morirete poco a poco!». L'entità illustrò con una
certa nota divertita ciò che sarebbe accaduto di lì a breve, prima
di aggiungere: «Sempre che i nemici che avete alle calcagna non
sopraggiungano prima della vostra dipartita. Io ho la cura».
«Dovete
credergli. Vendicatemi... vendicate il nostro popolo... vendicate
l'agonia che abbiamo patito. Rendete gli Uomini liberi dalla condanna
che li soggioga, rivoltateli contro chi li ha sottomessi! Serbate
rancore. Portate con voi l'insaziabile desiderio di vendetta.
Lasciate pure che prenda le nostre anime... », gli consigliò la
donna, accostandosi al suo orecchio; aggiunse poi, in un moribondo
sussurro: «Un giorno tornerete a riprenderle!».
«Non
vi lascerò andare, Janeris. Non posso condurre questa guerra da
solo», ammise il mago, mentre percepiva le braccia perdere
sensibilità, la lingua intorpidirsi e le palpebre appesantirsi: il
veleno stava intaccando le sue funzioni motorie. Presto non sarebbe
più stato in grado di muoversi, e tanto meno di respirare. Sarebbe
morto.
«Ricordate
le mie parole? Non esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro
elemento in questo universo che possa negarvi tale visione: poiché
io sarò qui, a condividerla al vostro fianco. Un nuovo alleato per
uno vecchio: uno scambio equo!», gli disse a fatica, poggiando una
mano sul suo pettorale sinistro, esercitando maggior pressione con la
punta dell'indice.
Il
tocco era rovente, tanto da sciogliere l'abito e bruciare la pelle,
incidendo una J
sulla sua carne. Egli non avvertì alcun dolore. «Avete trovato
qualcosa che vale la pena di portare con voi... sulla vostra pelle:
un marchio che mi legherà per sempre a ciò che diverrete. Amate
questa causa come avete amato me. Esistete per entrambi, annientateli
per i nostri fratelli... Realizzate il nostro sogno di rivalsa,
Dynastrir!».
Il
mago la prese fra le sue braccia con le poche forze rimaste, mentre
dal cunicolo alle sue spalle si udivano già il tintinnio di armature
e ordini scanditi in elfico. Il nemico era ormai vicino. Non slacciò
il legame visivo con la donna, mentre si apprestava a raggiungere
l'altare, finendo inglobato dalle tenebre. La lava ribolliva ai suoi
fianchi, gettando sul percorso i suoi roventi schizzi.
Adagiò
il corpo sull'ara, abbandonandosi anch'egli su di essa; i suoi occhi
ancora in quelli dell'amata. Percepì un'immensa energia sprigionarsi
dai loro spiriti, che finì presto per fondersi con quella arcana che
regnava nel luogo.
<<Saggia
scelta>>, recitò la tronfia voce. <<Che le tenebre
possano dominare in eterno, nel nome di Hail Vas!>>.
Avvertì
la sua anima congiungersi a quella di Janeris, mentre qualcosa pareva
dilaniare le sue carni, strappandole via. Vide tetre creature
volteggiare nell'ombra, ed i loro denti affondare su entrambi,
strappando e masticando le loro viscere. Le loro cuti erano
punzecchiate da creature minute dai volti inquietanti e dagli occhi
malevoli.
Udì
i loro macabri sussurri farsi largo nella sua mente, come un sinistro
richiamo che risaliva dal baratro dell'esistenza; si facevano
portatori di consigli, di conoscenze e di doveri.
Urlò,
ma senza dimenarsi, mentre il gelo stringeva le sue membra, sbarrava
i suoi occhi e faceva avvizzire la sua pelle, con violenza tale da
renderlo insensibile al dolore. Poi, scorse quell'ombra agitarsi, più
intensa e violacea che mai, sino ad assumere per la prima volta una
sagoma: era un lungo serpente composto di tenebra violacea, munito di
due teste, una per ogni estremità. Le sue iridi erano per metà
purpuree e per l'altra acide.
La
creatura si addentro interamente a forza nella bocca del mago,
scivolando prepotentemente giù per la sua gola. Era come un'affilata
lama che si faceva largo nel suo esofago, graffiando e tagliando,
sino ad aprirsi un varco nello stomaco, e quindi annidarsi attorno al
suo cuore, dove affondò gli aguzzi e ferini denti.
Nonostante
la fastidiosa sensazione, egli non avvertì alcuna sofferenza.
Subito
dopo, percepì un brivido di infinito potere scorrergli nelle sue
vene, come un soffio di nuova vita. Non respirava più, eppure era
vigile. Il suo cuore aveva cessato di battere, ciò nonostante il suo
corpo e la sua mente perduravano. Non provava stanchezza, né dolore,
ma poteva ancora dirsi se stesso. L'unica sgradevole sensazione, era
la gola asciutta: aveva bisogna di bere, ma non avvertiva il
desiderio della freschezza dell'acqua, bensì qualcosa di diverso, ma
che gli pareva di avvertire starsi avvicinando nell'aria.
Quando
la tenebra si diradò, vi era solo lui in piedi sull'altare. L'abito
era ridotto in brandelli, mettendo in mostra il suo asciutto e
pallido fisico. La sua schiena, appena incurvata per il tanto studio,
si era ora raddrizzata, ed i suoi muscoli apparivano sì rinsecchiti,
a causa della mancanza di spessore, ma più rapidi e precisi nei
movimenti.
In
quello stesso istante un pugno di Elfi irruppe nella grotta, con lame
e scudi alla mano. Alcuni di essi brandivano lunghi bastoni,
utilizzati per incanalare il potere arcano. Riconobbe ognuno di loro,
e fra di essi rivide incantatori con cui aveva condiviso molti anni
dalla sua vita: insegnati che era riuscito a sminuire col proprio
innato talento. Nei loro occhi lesse una vibrante paura, così come
nelle loro anime.
Discese
flemmaticamente dall'altare, percorrendo con cadenzati passi la
passerella di pietra. Si fermò davanti al gruppo, ed alcuni di essi
accennarono a voler indietreggiare.
Lasciò
che i lunghi capelli d'ebano gli oscurassero parzialmente lo scarno
viso, mentre li studiava sottecchi. Puzzavano di sangue: un odore che
ora stuzzicava i suoi sensi, quasi lo invitava a farlo suo.
«Cosa
siete diventato, immonda creatura?», domandò uno dei soldati,
pronto ad attaccare.
«Sono
ciò che ognuno di voi vorrebbe essere», affermò. Un genuino
sorriso marcò le sue labbra, mettendo in mostra la regolare ed
aguzza dentatura: i canini superiori erano leggermente più affilati
e lunghi del normale.
Spalancò
gli occhi che, accesi di un cremisi intenso, con venature violacee,
assunsero una viva tonalità purpurea. Poi, facendo un passo in
avanti ed aprendo le braccia come per accogliere i suoi nuovi ospiti,
si proclamò: «Io sono l'Arcaico!».
Continua
su...
Copia originale del racconto destinato per il contest di Wired!
Lasciva e
pigra, come un'onda che non trova la forza di raggiungere la riva, la
luce del sole si aggrappava ai confini di quel mondo, mentre veniva
lentamente trascinata via dall'estasiante radiosità lunare. Quei
moribondi raggi parevano artigli che affondavano disperatamente nelle
carni di praterie sanguinanti, evocando rari dipinti. Tutto dava
l'impressione di essersi fermato, persino i battiti dei loro cuori,
assopiti anch'essi in quell'alienante quiete.
«Avvolgere la luna ed il sole insieme nello stesso palmo... Sarebbe una visione meno inebriante del restare qui, immobile su questo colle, ad ammirare il vostro profilo baciato dal chiarore di entrambi gli astri», confessò l'uomo, mentre il cielo si faceva profondo come l'abisso.
«Non esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro elemento in questo universo che possa negarvi questa visione: poiché io sarò qui, a condividerla al vostro fianco. Neanche gli Dei hanno potere su ciò che siamo, poiché noi siamo parte di essi. Presto questo creato avrà il mondo che merita... E le Eatryn saranno finalmente costrette ad inchinarsi anch'esse alla volontà del destino!», rispose una risoluta voce femminile.
«Avvolgere la luna ed il sole insieme nello stesso palmo... Sarebbe una visione meno inebriante del restare qui, immobile su questo colle, ad ammirare il vostro profilo baciato dal chiarore di entrambi gli astri», confessò l'uomo, mentre il cielo si faceva profondo come l'abisso.
«Non esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro elemento in questo universo che possa negarvi questa visione: poiché io sarò qui, a condividerla al vostro fianco. Neanche gli Dei hanno potere su ciò che siamo, poiché noi siamo parte di essi. Presto questo creato avrà il mondo che merita... E le Eatryn saranno finalmente costrette ad inchinarsi anch'esse alla volontà del destino!», rispose una risoluta voce femminile.
La
luce si assopì all'orizzonte, nel momento in cui anche la luna
soccombeva alla giunta di nubi cariche di piombo: la tempesta era
vicina.
Ryll
li incantò come ogni volta che l'avevano visitata: le tre alte torri
elfiche, erette sfruttando l'ausilio di querce secolari e distanti
circa cento metri l'una dall'altra, si stagliavano in tutto il loro
splendore, quasi fossero delle lance luminose. Appese alle rampicanti
che le bardavano ed ai bordi degli spioventi tetti conici sbocciavano
eleganti lanterne, ove lucciole dai riflessi violacei erano solite
bearsi della magia elfica, o compiacersi della compagnia di quella
razza, che pareva sempre più incline a lasciarsi alle spalle il
proprio regno, per cercare nuove terre dove vivere in pace.
Il
piccolo borgo era privo di mura ed armamenti da guerra, ed il
mantenimento della quiete era affidato solo ad una ristretta cerchia
di soldati, di stirpe perlopiù elfica. Le torri avevano l'unico
scopo di avvistare i Draghi, sebbene nessuna precauzione fosse mai
stata presa per contrastarli: niente avrebbe potuto placarli, se
intenzionati ad attaccare.
L'accesso
era indicato da due ricurve querce che, intrecciando i propri rami,
creavano un'arcata naturale dove rampicanti in fiore pennellavano la
via di candidi boccioli profumati. L'ingresso era sguarnito – come
da tradizione elfica – poiché quella terra era di tutti, ma
realmente di nessuno: i confini erano superflui per una stirpe che si
reputava erede della natura, ed il solo delinearli imponeva una
limitazione alle proprie vedute, come gli stessi Elfi amavano dire
“ciò che si trova fuori dai nostri orizzonti è spesso oggetto
d'incomprensione; dunque è per questo che abbiamo rifiutato di
definirli”.
«Calpestiamo
la natura ad ogni passo: come possiamo definirci puri, se il solo
nostro esistere comporta un male per ciò che ci circonda?», recitò
sarcasticamente l'uomo; quelle parole gli erano state rivolte proprio
da un elfo durante la sua prima visita: era stato come annegare in un
lago ghiacciato.
Aveva
sempre avuto grande rispetto per la razza immortale, per la loro
raffinata cultura, la cura per ogni dettaglio, la filosofia – di
cui aveva divorato intere biblioteche – ma sino ad allora non aveva
mai considerato il fatto che, per gli Elfi, gli Uomini fossero da
sempre stati una minaccia per l'equilibrio del loro mondo.
Erano
ritenuti instabili, violenti, volubili e dispensabili per il ciclo
della vita. Erano stati paragonati ai Draghi, ma i mortali avevano un
vantaggio rispetto a questi ultimi: la rapida procreazione. Difatti,
in poco più di due secoli di vita erano riusciti ad incrementare a
dismisura il proprio numero, quasi pareggiando quello elfico. Poi, a
dar prova della loro sconsiderata indole, avevano iniziato a farsi la
guerra, soggiogati dal potere promesso dai Draghi.
Molte
cose erano mutate dopo quella conversazione, specialmente dopo
l'incontro di Janeris, una donna di solo carattere, che vantava, per
quanto lo disprezzasse, sangue elfico.
Lei
aveva stravolto ogni sua certezza, aiutandolo ad aprire gli occhi
alla verità. Ora soppesava ogni realtà, e non poteva sottrarsi
all'idea di cambiare tutto, donando al mondo ciò che davvero
meritava: era l'occasione di dare uno scossone a Draakhonsgaard.
«Ignorate
i loro futili discorsi», tagliò corto la donna, volgendogli un
severo sguardo. «Discrezione. Abbiamo giurato che saremmo stati
buoni sino al momento dell'incontro. Conosciamo a malapena ciò che
potremo fare e, molto probabilmente, avremo una sola occasione per
realizzare il nostro piano».
«Sono
solo parole, Janeris. Non ho perso di vista l'obiettivo», ribatté,
concedendosi di ammirare le sue forme.
Si
scoprì schiavo di ogni suo gesto. I lunghi capelli corvini danzavano
con eleganza, sfiorando con accennati boccoli i suoi glutei, mentre
le sue labbra carnose erano dispensatrici di affilata saggezza. Gli
occhi erano l'emblema della sua unicità: uno azzurro, l'altro
violaceo, ad indicare la sua padronanza delle arti magiche.
Era
usanza, in giovanissima età, applicare le doti arcane su sé stessi,
sì da comprovare il proprio potere. Molti sceglievano di marchiare a
fuoco il proprio avambraccio sinistro, altri l'addome o la schiena:
in ogni caso un punto facile da celare, all'occorrenza. L'uomo
rifiutò la tradizione.
Janeris,
invece, aveva un spropositata considerazione di ciò che aveva scelto
di essere: aveva prescelto il suo occhio sinistro, così da ricordare
a chiunque le stesse davanti chi fosse. Alcuni dicevano che esso
possedesse proprietà sovrannaturali, e che le fosse possibile
scorgere attraverso il velo che occultava il mondo reale agli occhi
dei comuni viventi. La chiamavano Chiromante.
Scivolarono
come ombre per le viuzze boschive del borgo, sfruttando quelle stesse
lanterne gremite di lucciole per attraversare le zone meno popolate,
quindi si tuffarono fra la vegetazione, riuscendo ad accedere ad un
celato sentiero avvolto da rigogliosi rovi, che s'inoltrava nel fitto
del bosco che accoglieva Ryll. I loro passi erano più rumorosi, così
come i loro respiri, costretti a movimenti macchinosi, onde evitare
di rimanere impigliati lungo il passaggio.
«Luxaar»,
sussurrò Janeris, soffiando poi sul proprio palmo, dove venne a
crearsi una piccola sfera bluastra, che donò una minima fonte
d'illuminazione, ora che le tenebre erano assolute.
Man
mano che avanzavano la flora rinsecchiva, mostrandosi decadente ed a
tratti corrotta. La vitalità dei colori lasciava spazio ad ombre che
inghiottivano la natura stessa, privandola della propria solarità. I
rovi parevano animarsi, con gli aculei che puzzavano di sangue e
putrescenza. Lo stesso terreno brulicava di viscidi insetti, perlopiù
cacciatori di carcasse. Minuscoli occhi infuocati affollavano i
dintorni del sentiero.
«Qualcuno
ci segue», notò l'uomo guardandosi alle spalle, invitando la donna
ad affrettarsi. I rumori sul tracciato stavano crescendo: in molti
erano sulle loro tracce.
«Da
questa parte!», fece strada lei, gettandosi in un fitto cespuglio di
rovi: vennero inghiottiti entrambi. Gli aculei non lasciarono alcun
segno sulla loro pelle; anzi, parvero quasi inconsistenti al tatto.
L'uomo
sorrise: quel luogo celava più di quanto desse a vedere, ed era
ormai chiaro che fervesse di potere arcano. Riusciva a percepirlo,
estraniandosi dal percorso, pulsare attorno a sé, come un cuore
palpitante. I suoi pensieri furono interrotti da una brusca frenata:
la via era bloccata da un incrocio, ed ognuno dei sentieri appariva
speculare a quello appena percorso. Si sentirono smarriti.
«Iakulu
hyream!», evocò a gran voce l'uomo, protendendo le mani davanti a
sé in direzione delle tre vie: apparvero sei dardi luminosi, che si
divisero in coppie per ogni percorso, lasciandosi una candida scia
ondeggiante dietro. La luce consentì loro di notare che le vie sulla
sinistra erano quelle sbagliate, poiché quei dardi svanirono avvolti
da una cupa tenebra, come se l'incanto fosse stato consumato da
qualcosa che si celava al centro del sentiero.
«Furbo»,
commentò Janeris lanciandosi sulla destra, con un passo che
rasentava la corsa.
Alle
loro spalle si levarono grida di battaglia, soffocate presto da altre
di dolore; le ombre in lontananza erano schiarite da colori
differenti, mentre il potere che dimorava in quella natura corrotta
sembrava starsi animando sempre più, protendendosi anche su chi si
stava allontanando dalla zona dello scontro.
Janeris
si gettò per l'ennesima volta dentro i rovi, svanendo come poco
prima, quindi affrettò ulteriormente il passo, lanciandosi in una
sfrenata corsa: in lontananza si scorgevano due fiammelle verdognole,
poste ad indicare l'ingresso di una grotta che sprofondava nel
sottosuolo.
La
terra si fece instabile, ed una serie di rigogliose e vive radici
frammentarono il sentiero, avviluppando i due: l'uomo ebbe la meglio,
divincolandosi, mentre Janeris venne catturata ed immobilizzata. La
natura pareva essersi ribellata, almeno ad un occhio inesperto,
mentre l'incantatore non aveva alcun dubbio su chi fosse l'artefice
di quella magia.
«Perché
scegliere questa strada? Credete realmente che ciò che vi attende
nel sottosuolo sia meglio di quanto vi circonda?», esordì una voce
soppesata, figlia di labbra che avevano fiato da secoli.
«Cènidar...
Con che coraggio trovate il diritto di giudicare? Cosa potete saperne
del dolore di questa vita mortale, voi che nell'immortalità
attraverserete il destino?! Siete stati prescelti, come pochi uomini,
per vedere lo splendore delle ere scorrere. Noi, invece, poveri ed
inutili mortali? Siamo costretti a decadere, a sopperire alle
malattie, ad essere piegati dal tempo, sino a che la debolezza ci
trasformerà in inutili e vuoti involucri per vermi!», rispose
rabbioso, seguendo l'Elfo emergere dall'ombra. I suoi larghi abiti
abbandonarono un colorito appassito per ritornare al solito verde
acqua, proprio come la tonalità dei suoi occhi. I suoi capelli
castani erano legati in una coda dalle punte argentate, con una
solitaria ciocca dello stesso colore che gli cadeva davanti al viso.
«Quel
che non vedete è l'immenso dono che vi è stato fatto dalle Eatryn:
Pur
gli alberi si piegano alla volontà del vento,
come
le montagne si lasciano consumare dal tempo,
gli
astri svaniscono dal cielo stellato,
ed
i vulcani s'addormentano senza più fiato.
Abbiamo
visto l'alba di questo mondo, ma ditemi, chi vorrebbe scorgerlo
sfumare, attraversando la magnifica rinascita, così come la
terribile decadenza dei luoghi e delle persone amate?».
«Ho
udito abbastanza i vostri filosofeggianti discorsi! Viviamo le stesse
emozioni, ma noi patiamo una sofferenza immotivata. Non venitemi a
parlare di dolore, quando ciò che conoscete è solo bontà e
serenità. Liberatela, e vi risparmierò solo poiché siete stato la
mia unica guida per molto tempo».
«Liberarla
significherebbe condannare il mio popolo, oltre che la vita che nasce
su queste terre. Bontà e serenità... Voi siete la dimostrazione che
gli Uomini si privano di esse con le proprie mani. Credevo avreste
dimostrato agli Elfi che si sbagliavano sul conto della vostra razza,
invece avete dato prova del fatto che il loro giudizio sia
insindacabile: siete portati solo a distruggere tutto ciò che vi
circonda!», rispose Cènidar.
«Iverust
edorth!», esclamò l'uomo, puntando indice e medio della destra in
sua direzione, mentre gli si faceva vicino, evitando altre radici.
Dalla punta delle dita unite scaturì un raggio violaceo macchiato da
un riflesso color pece, che centrò uno schermo di luce creato
tempestivamente dall'Elfo, senza pronunciare alcuna formula. «Forse
avete ragione, maestro...», aggiunse sostenendo lo sforzo
dell'incanto, contrastando la strenua difesa di Cènidar. Nella mano
sinistra intanto aveva preparato un vorticoso globo smeraldino, che
si portò davanti alle labbra: «Kyma
ànemos».
La sfera sfrecciò sino alla barriera dell'Elfo, dove esplose in un
prorompente tuono. I tre vennero sbalzati all'indietro dalla potenza
generata.
Gli
effetti degli incanti a cui si erano appellati vennero meno. Cènidar
giaceva a terra con le mani sulle orecchie, dalle quali stava colando
del sangue, mentre i due mortali erano riusciti a cavarsela con una
momentanea perdita dell'udito, e qualche attimo di totale confusione.
L'uomo si precipitò sull'Elfo, che intanto aveva riaperto gli occhi
e sollevato la mano destra, stringendola in un pugno.
«Tenebrignis!»,
recitò poggiando il palmo sul volto dell'immortale: divampò una
fiamma che avvolse interamente il suo viso, carbonizzandolo, mentre
l'altra mano infieriva sul petto, dando fuoco ai suoi abiti.
«Inizierò col distruggere una falsa guida!», aggiunse furente.
Si
fermò solo una volta che il suo potere fu prosciugato, tanto che
anche il solo respirare gli risultò arduo.
Janeris
lo tirò su, ma non ebbe il tempo di avvisarlo di ciò che i suoi
occhi avevano scorto: il corpo carbonizzato di Cènidar si gonfiò
con numerose protuberanze, sinché non esplose, scagliando ovunque
ciò che restava della sua carcassa.
Entrambi
avvertirono una moltitudine di piccoli aghi conficcarsi nelle loro
schiene, mentre cadevano a terra, prede di una lancinante debolezza.
«Che
la tua anima possa essere dilaniata nei Castighi,
dannato Elfo!», ruggì Janeris, battendo un pugno a terra.
L'uomo
non poté che prestarle attenzione: numerosi aghi l'avevano colpita,
ed una profonda ferita solcava il suo ventre, dal quale continuava a
fluire copioso il sangue. Quella lesione le era stata inferta dalle
radici di Cènidar, del quale ora non restava che un liquido
verdognolo.
«Dobbiamo
sbrigarci... Non è molto distante...», sospirò l'Umana.
«Fermiamoci:
non possiamo proseguire in queste condizioni!», la ammonì il
compagno.
«Ma
non possiamo neanche tornare indietro», fece notare lei,
aggiungendo, dopo essersi tirata su con le poche forze che le
rimanevano: «Egli potrà aiutarci. Dopotutto, il nostro fisico
mortale è di gran lunga superiore a quello elfico... Datemi una
mano».
L'uomo
accordò, ma non prima di averle fasciato l'addome con le maniche
della propria maglia. La prese sottobraccio, cercando di fare
attenzione alle ferite, mentre la scortava verso l'ingresso del buio
cunicolo. Le fiammelle verdognole li accolsero, per accompagnarli
lungo la discesa. Il freddo iniziò a farsi rigido, mentre le loro
energie scemavano ad ogni passo, rendendo le gambe pesanti ed il
respiro affannato. Janeris prese a vaneggiare, pronunciando vaghe
parole in un linguaggio che differiva da ogni altro conosciuto.
Ebbero
l'impressione di star scendendo da ore, quando la luce tornò ad
infastidire i loro occhi. Il cunicolo si apriva in una grotta
circolare, munita di tre grandi bracieri scolpiti nella roccia, al
cui interno ribolliva della lava. Una passerella di pietra conduceva
ad un altare circolare, posto al di sopra di una pozza color pece.
«Non
c'è nessuno... Siamo in trappola!», constatò l'uomo, guardandosi
attorno sbigottito.
«Ti
sbagli, umano», echeggiò una tronfia voce neutra, mentre dalla
pozza si levava una densa ombra dalle sfumature violacee. Si agitava
come fumo, aleggiando attorno all'altare, ma senza oltrepassare i
bracieri. «Qui risiede molto più di quanto siete in grado di
scorgere. Le vostre anime mortali non sono in grado di cogliere le
sfumature di questa realtà».
«Cosa
siete, e perché ci avete richiamati in questo luogo?», chiese
l'uomo. Percepiva immense energie arcane ivi racchiuse, ed era
consapevole che fossero bel oltre le sue possibilità.
«Sono
tutto ciò che vorreste essere. L'unica cura per la piaga che riduce
i vostri simili in polvere. Mi avete cercato, ed io posso donarvi ciò
che bramate: l'immortalità», rispose facendosi più imponente. Fra
le ombre si schiusero due occhi dalla tonalità acida, prima che
aggiungesse: «Il potere a cui avrai accesso sarà immenso.
L'immortalità assoluta: niente potrà scalfirti o piegarti.
Temeranno ciò che diverrai. Si inchineranno... Nessuno potrà
fermarti!».
«Cosa
volete in cambio?».
«La
ragazza... E la tua anima. Non ne avrai più bisogno una volta
raggiunta la perfezione».
«Temo
questo scambio sia infattibile», rispose.
Janeris
abbandonò la presa, cadendo rovinosamente a terra. Dalla sua bocca
aveva iniziato a sgorgare un rivolo di sangue. La chiamò più volte,
senza ricevere risposta: il suo battito si stava affievolendo.
«Io
posso salvarla. Posso salvare ambedue», proseguì la tetra voce.
«Salvarci
da cosa?».
«Dalla
morte. Janeris è stata infettata dalla magia elfica, attraverso un
sortilegio proibito dallo stesso popolo di Caylionel. Non siete in
grado di rimuovere il potente veleno che è stato iniettato nel suo
sangue... come nel tuo. Presto non potrete più muovervi, e morirete
poco a poco. Io ho la cura».
«Dovete
credergli. Vendicatemi... vendicate il nostro popolo... vendicate la
nostra condizione. Rendete gli uomini liberi dalla condanna che li
soggioga, rivoltateli contro chi li ha sottomessi. Serbate rancore,
portate con voi l'insaziabile desiderio di vendetta. Lasciate pure
che prenda le nostre anime... », disse la donna, accostandosi al suo
orecchio. «Un giorno tornerete a riprenderle».
«Non
vi lascerò andare, Janeris. Non posso condurre questa guerra da
solo», ammise l'uomo, mentre percepiva le braccia perdere
sensibilità: il veleno stava intaccando le funzioni motorie. Presto
non sarebbe più stato in grado di muoversi. Sarebbe morto.
«Ricordate
le mie parole? Non esiste luna, sole, giorno, notte o qualsiasi altro
elemento in questo universo che possa sottrarvi a questa visione:
poiché io sarò qui, a condividerla al vostro fianco», gli disse
poggiando una mano sul suo pettorale sinistro, esercitando maggior
pressione con la punta dell'indice.
Il
tocco era rovente, tanto da sciogliere l'abito e bruciare la pelle,
incidendo una J sulla sua carne. Non percepì alcun dolore. «Avete
trovato qualcosa che vale la pena di portare con voi... sulla vostra
pelle: un marchio che mi legherà per sempre a ciò che sarete. Amate
questa causa come avete amato me. Esistete per entrambi, annientateli
per i nostri fratelli... Realizzate il nostro sogno!».
L'uomo
la tirò su con le poche forze rimaste, mentre dal cunicolo alle sue
spalle si udiva il tintinnio di armature e parole elfiche. Non
slacciò il legame visivo, mentre si apprestava a raggiungere
l'altare, finendo inglobato dalle tenebre. Percepì un'immensa
energia sprigionarsi dai loro corpi, che finì presto per fondersi
con quella arcana che regnava nel luogo.
Avvertì
la sua anima congiungersi a quella di Janeris, mentre qualcosa pareva
dilaniare le sue carni, strappandole via. Urlò, ma senza dimenarsi,
mentre il gelo stringeva le sue membra, dilatava i suoi occhi e
faceva avvizzire la sua pelle, con violenza tale da renderlo
insensibile al dolore. Scorse quell'ombra agitarsi, più intensa e
violacea, sinché divenne parte di sé, attraversando il suo corpo,
ivi restando.
Percepì
un brivido di infinito potere scorrere nelle sue vene. Non respirava
più, eppure era vivo. Il suo cuore aveva cessato di battere, ciò
nonostante il suo corpo e la sua mente perduravano. Non provava
stanchezza, né dolore, ma poteva ancora dirsi se stesso. Non restava
che lui in piedi sull'altare.
Un
pugno di Elfi irruppe nella grotta. Riconobbe ognuno di loro. Rivide
incantatori con cui aveva condiviso molti anni dalla sua vita, e nei
loro occhi colse la paura, così come nelle loro anime. Discese
agilmente dall'altare, percorrendo la passerella di pietra e
ponendosi davanti al gruppo. Puzzavano di sangue: un odore che
stimolava i suoi sensi, quasi un invito a farlo suo.
«Cosa
siete, immonda creatura?», domandò uno dei soldati, pronto ad
attaccare.
«Sono
ciò che ognuno di voi vorrebbe essere».
Ringrazio Simone e Marta per l'aiuto con le bozze.
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