Sùilad!
Vi sarà possibile leggere questo racconto in due formati differenti:
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In entrambi i casi potrete leggere la prima parte del romanzo. Di seguito posterò direttamente qui sotto il seguito, in aggiornamenti mensili. Potrebbe venirne fuori un intero libro online! Vi auguro una buona lettura!
NB: Ringrazio Simone Muzzoni e Marta Simula per aver collaborato alla sistemazione delle bozze.
Oppure continua a leggere...
Gli
Eroi dell'Alba
Giovanni
Giuseppe Pintore
Gli
Eroi dell'Alba
La Lama dei Redentori
La Lama dei Redentori
Illustrazione a cura di Costantino Nieddu
A
tutti coloro che amano sognare.
Capitolo
I
Il
Cavaliere di Solarniar
Un
copioso sbuffo di fumo avvolse il cielo, catturando quel solitario
spicchio di luna in un perfetto e largo anello che presto si sarebbe
dissolto, seguito da altri più stretti. Il caos del giorno era
venuto meno, ed ora regnava una totale quiete davanti alla statua di
Re Kamen, situata esattamente al centro della piazza che al celebre
sovrano era stata dedicata. Le fiaccole, sorrette dai venti guardiani
a sua protezione, esaltavano quella maestosa e vigile figura, che su
tutti i suoi figli vegliava durante la notte. La sua corona, quasi
fosse giorno, irradiava ancora lo stesso splendore d'un tempo, capace
di far apparire pieno di vita il monumento di quel saggio eroe, che i
secoli aveva potuto osservare dal suo piedistallo, beandosi della
rosea crescita di Èndhàr' Kròn e del Regno di Radharon.
«Un
Cavaliere Divino non dovrebbe avere vizi», l'ammonì la rigida voce
di Willrond, che intanto gli si era accostato sugli ultimi scalini
della rampa. La sua pelle mulatta appariva appena più scura alla
luce delle fiaccole, creando uno strano contrasto con gli occhi color
nocciola, nei quali si riflettevano le fiamme ardenti.
«A
mia discolpa, amico mio, posso dire di non esserlo ancora», rispose
beffardamente Nhàr, prendendo un altro gran tiro dalla pipa. Poi,
trattenendo il fumo, aggiunse: «Lasciami godere di questi miei
ultimi istanti di piacere mortale, considerato che mi attende
un'eternità di negazione. Oppure una di dannazione».
«A
vedervi, benché indossiate gli abiti della Folgore, e stando a ciò
che dite, si riesce a stento a credere di aver davanti un Aspirante.
Sarebbe saggio comportarsi adeguatamente, almeno in attesa del
verdetto dei Cinque Divini. Dovreste considerarla meno tragica: anche
se non date a vederlo, sono certo che desideriate dimostrare di
essere degno di rivestire questo ruolo nella nostra società».
«Non
mi restano molte alternative», borbottò fra alcuni colpi di tosse.
Poi, dopo aver tirato su col naso ed essersi strofinato le nocche sul
mento barbuto, unico elemento in grado di rendere la sua pelle appena
più scura, rispetto al pallore che lo contraddistingueva, riprese:
«O supero l'alba, oppure dovranno scavare una fossa in più. Riesci
ad immaginarti: io che stramazzo al suolo davanti a tutti, preda di
chissà quale orribile spasmo di dolore. Le divinità sanno essere
crudeli, talvolta. Spero almeno che Solarniar abbia preso in
considerazione il mio senso dell'umorismo: questo dovrebbe
avvantaggiarmi... in qualche assurdo modo», azzardò.
«Umorismo,
eh?», sospirò Idregor, discendendo la rampa, sino ad ergersi
proprio davanti a loro in tutta la sua cospostezza. «Dovreste
lavorarci su, perché spesso è stato scambiato per maleducazione,
Nhàr. L'evento di cui parlate si è già verificato in passato, e vi
assicuro che non è mai stato un grandioso spettacolo. Di rado, però.
Generalmente gli allievi sono abbastanza saggi da sottrarsi
all'ultima prova».
«Maestro!»,
disse Willrond, mettendosi in piedi. Il compagno si limitò a fare
spallucce ed un cenno del capo, allargando le braccia in risposta
alle parole del Gran Maestro della Folgore Divina.
Il
soldato indossava un abito color nocciola, la spada lunga pendeva sul
fianco destro, ed il pomolo della stessa serviva a ricordare al mondo
quale carica egli ricoprisse, ed il fatto che appartenesse ad un
ordine prestigioso. Era un uomo sulla quarantina, anche se la sua età
era rinvigorita dai lunghi capelli, raccolti in una coda, e da una
curata barba nera. Parecchie cicatrici marcavano la sua rosea pelle,
simbolo dell'estenuante lotta che aveva ingaggiato contro le forze
del male. I suoi occhi erano di un celeste intenso, e si specchiavano
ora in quelli del colore delle praterie di Nhàr. Almeno per
l'aspetto, maestro ed allievo si somigliavano parecchio, a differenza
dei loro caratteri. Willrond aveva imparato ad apprezzarli entrambi.
«Quindi
è colpa mia se gli altri si offendono? Devo essere sincero... sono
quasi un Cavaliere Divino, e non posso mentire: se uno ha una brutta
faccia, mi sento in dovere di ricordarglielo!», rispose divertito il
giovane uomo; aggiungendo, mentre svuotava la pipa dentro un apposito
piccolo contenitore di metallo: «E nella maggior parte dei casi,
quelli a cui ho rivolto le mie attenzioni puzzavano di losco... Ed il
mio fiuto ha difatti trovato delle carogne».
«Su
questo non possiamo darvi torto, Nhàr. Sarete un Cavaliere Divino
però, ed i vostri modi potrebbero essere più affabili; dovreste
levigarli, affinché possiate gestire adeguatamente ogni situazione»,
chiarì scuotendo il capo.«Ad ogni modo, se vi ho raggiunti qui non
era di certo per farvi la ramanzina. Ci tenevo a dirvi che sono fiero
di voi: vi siete comportati egregiamente nella scorsa prova, mettendo
in mostra le vostre capacità e gli insegnamenti che avete appreso in
questi duri anni, attraverso il vostro costante impegno nella causa.
In voi scorgo un immenso potenziale, e molto ancora vi aspetta dopo
quest'alba. Avrete solo ricordi delle mie lezioni, ed altri
apprenderanno dal vostro operato...», disse, fermandosi all'udire di
zoccoli sul ciottolato, volgendo il suo sguardo in direzione della
Via dei Re, che conduceva direttamente alla porta est.
«Gaklin!»,
esclamò Willrond, scorgendo il Nano avanzare in loro direzione a
bordo di una carrozza, portata avanti da una coppia di Shire.
«Oh,
che sorpresa! Quanto tempo, giovane Will: siete cresciuto dall'ultima
volta!», vociò ben poco garbatamente quello, invitando i destrieri
a fermarsi.
«La
luce di Solarniar sta per affacciarsi su di noi, Aspiranti: andate a
prepararvi, la cerimonia sta per iniziare», annunciò il Gran
Maestro, prendendo poi a raggiungere il Nano. «Sùilad! Credevo non
sareste riuscito ad essere presente, vecchio mio; invece, eccovi qui
a fare baccano prima che sorga il sole. Il popolo ancora dorme», lo
rimproverò con garbo.
«Sùilad
un corno di Drago! Per tutte le fucine di Domitrhon, è questo il
modo di accogliere un Nano? Neanche mi lasciate il tempo di arrivare,
che mi aggredite con quella parolaccia elfica: aspettate almeno che
prenda due boccali di Bahòrbirra, prima d'iniziare ad insultarci!»,
rispose Gaklin, ergendosi sulla carovana con i pugni sui fianchi.
Riuscì a reggere quella farsa per pochi secondi, prima di scoppiare
in una fragorosa risata, tanto che il Gran Maestro dovette invitarlo
nuovamente a contenere i propri toni. «Credevate che mi sarei perso
i vostri primi otto?».
Nhàr
rise di gusto, come Willrond d'altra parte, ed anticipò il compagno
nella salita verso la cattedrale. Le due coppie di Guardiani Aurei,
posti a protezione dell'ingresso, non si erano smossi neanche con
tutto quel baccano. Se ne stavano immobili, quasi fossero statue,
chiusi dentro le loro eleganti armature dorate, rifinite in ogni
dettaglio, che niente del loro fisico mortale lasciavano trasparire.
Indossavano
elmi pieni, con un mento a “V” che ricadeva sul pettorale; due
feritoie diagonali erano poste all'altezza degli occhi, mentre una
serie di scanalature con piccoli fori si aprivano corrispettivamente
alla bocca. Sulla sommità della fronte si protendeva uno sperone
che, allargandosi in un ristretto cono verso la nuca, ospitava una
lunga criniera argentea che ricadeva sul loro candido mantello. La
loro imponenza era accentuata dalla lunga alabarda dorata che
brandivano, alla quale davano l'impressione di sorreggersi durante la
loro guardia. Erano figure che ispiravano un profondo rispetto, oltre
che una devozione sovrannaturale alla causa della Folgore.
Si
raccontavano molte storie sul loro conto, ma solo chi era addentro ai
piani dell'Ordine della Folgore Divina era a conoscenza della realtà
che si celava dietro tanta riservatezza. Si diceva che i loro nomi
fossero ormai divenuti obsoleti per la carica che impersonavano, e
molti Cavalieri Divini si riferivano ad essi con il termine Rùilvara,
che nella lingua degli Dei – il chelestian – aveva il significato
di “Patroni”.
Al
semplice sguardo del popolo potevano apparire solo quattro soldati
ben agghindati a parata, destinati in quel ruolo al solo scopo di
elevare la magnificenza ed il prestigio della cattedrale alle loro
spalle; ma dietro alla loro guardia si celava una verità che era
preclusa ai più, e solo poiché non erano in grado di vederla con i
propri occhi. Nhàr aveva sempre percepito una profonda sensazione
lenitiva per il suo spirito al semplice passarvi accanto, e si era
sempre sentito al sicuro affianco ad uno di loro. Eppure, mai li
aveva uditi parlare, visti mangiare o semplicemente vagare per la
cattedrale. Erano sempre stati lì, immobili nello svolgere la loro
mansione. Ciò che sapeva di concreto, era che il Patriarca Lioner
aveva imposto agli Aspiranti di non disturbarli, per nessun motivo,
eccetto in casi di estremo pericolo.
«Sbrigati,
Nhàr. Dobbiamo prepararci per la cerimonia!», gli disse Willrond,
precedendolo all'interno della cattedrale.
Il
giovane uomo diede un ultimo sguardo ai quattro, prima di seguire il
compagno: il momento della verità stava per giungere, e gli Dei
avrebbero deciso chi di loro sarebbe stato meritevole di servirli. La
vita e la morte erano divise da un sottilissimo filo, sul quale
ognuno di loro si teneva in equilibrio.
La
cerimonia sarebbe durata poco più di una comune messa, ed il
Patriarca avrebbe dato fondo a tutte le sue scorte di parole
d'incoraggiamento per confortare gli agitati cuori degli Aspiranti.
Gli otto presero un lungo sorso dalla coppa dorata, irradiata dal
primo raggio del giorno, che Lioner aveva loro offerto: era calda, ed
al suo interno si trovava un liquido torbido e biancastro, il cui
odore ricordava vagamente quello del miele; lo chiamavano estratto
di Flospiritum, il Fiore del Sole e della Luna, ed ingerirlo
costituiva l'ultima prova che era loro richiesta.
Nhàr
fu il secondo della fila, subito dopo Willrond. Una sensazione di
calore lo pervase, e percepì i suoi sensi affinarsi, con un brivido
che gli percorse la schiena; si sentì diverso, come se il peso di
una grossa responsabilità ora gravasse sulla sua persona; eppure
avvertì un'estrema leggerezza d'animo: ora era libero di respirare a
pieni polmoni mentre nuovo energie prendevano a rinvigorire il suo
corpo. Non si era mai sentito tanto sereno ed in forma in vita sua,
quasi fosse rinato in quel preciso istante.
Le
congratulazioni iniziarono a piovere da ogni dove, da volti
conosciuti e non, con la cattedrale che brulicava più che mai di
esponenti ecclesiastici provenienti da ogni parte di Draakhonsgaard,
tutti desiderosi di celebrare quell'evento: nuovi Cavalieri Divini si
apprestavano a servire l'Ordine della Folgore Divina, bramosi di
portare lo stendardo della luce ove le ombre dimorano.
Èndhàr'
Kròn non era l'unico luogo consentito ove i paladini potevano
ottenere l'incoronazione, anzi, molti erano i Templi dei Cinque
Divini sparsi su tutta Draakhonsgaard che si occupavano proprio di
ciò. La sua importanza era dovuta al prestigio della capitale che,
oltre ad essere il centro vitale di Rhadaron, rappresentava anche il
fulcro dello stesso Ordine della Folgore, considerato che il
Patriarca in persona viveva fra le mura della cattedrale.
Nhàr
storse il naso: apprezzava il fatto di essere elogiato, quando ciò
avveniva moderatamente, ma tutti quei complimenti ancora sentiva di
non meritarli, poiché niente di concreto era ancora stato da lui
compiuto. Poi, fra la folla si aprì un varco che conduceva verso
l'uscita, ed il giovane si lasciò tentare dalla fuga, prendendo le
distanze dai compagni, ancora troppo sommersi da quelli che Nhàr
definiva “inutili convenevoli”.
Quella
breccia fra le persone si concluse con un vicolo cieco, proprio a
pochi metri dal portone, e furono tre incappucciati a sbarrargli la
strada, cosa insolita per quel luogo di culto, ove vigeva l'obbligo
di scoprire il proprio volto per omaggiare i Cinque Divini.
Nhàr
era sempre stato un buon osservatore, ed il suo sguardo ricadde
inevitabilmente sul tessuto di quella larga mantella dal colore della
cenere, quindi sui pregiati stivali di pelle, tutt'altro che
consumati. Giunse a soli sei passi di distanza, quindi fece per
inchinarsi, ma l'incappucciato al centro lo tirò gentilmente su per
una spalla.
«Discrezione,
mio giovane Cavaliere Divino. Discrezione», gli sussurrò una
elegante e rassicurante voce, dal timbro regale e pacato. «Solo
dinanzi agli Dei avete il dovere di prostrarvi, quest'oggi. Lasciate
che i mortali stiano al loro posto».
«Perdonatemi.
Per me è un onore, Sire...», ebbe solo la facoltà di esalare,
abbassando lo sguardo. Da quella figura, ancor prima di raggiungerla,
aveva percepito irradiarsi un'aura strepitosa, capace di confortare
ed alleviare l'animo. Non era il suo aspetto, ma il portamento ed il
carisma a conferirgli l'eccezionalità che tutti potevano ammirare ed
adorare nella sua nobile figura. Era Re Arweinar, Signore di Èndhàr'
Kròn, Sovrano di Radharon, figlio della celebre dinastia
Searider.
«Alzate
lo sguardo, Nhàr. Lasciate che questo vecchio possa ammirare la
sincerità della gioventù mutare in saggezza, e l'innocenza divenir
veicolo di pace. Siete ciò che un tempo io fui, siete il futuro di
queste terre», aggiunse l'uomo.
«Sarò
sempre al servizio della Corona, sotto la vostra misericordiosa e
saggia guida, Sire», affermò risoluto il neo cavaliere. I suoi
occhi incrociarono quelli color dell'oceano del sovrano, rimanendo
intrappolati in uno sguardo che pareva custodire ogni risposta,
austero ma al contempo generoso, imperscrutabile ed ammaliante.
Nessuno che aveva conosciuto possedeva lo stesso portamento.
«Ho
seguito il vostro addestramento, e sono rimasto piacevolmente colpito
dalle imprese che siete stato in grado di portare a termine,
nonostante la vostra giovane età. Sir Idregor ed il giovane Willrond
mi hanno parlato molto di voi: ingannate la vostra gioventù con un
aspetto più rude, che vi lascia apparire più adulto agli occhi di
chi v'incontra, sintomo del desiderio di non voler essere
sottovalutato», lo elogiò Arweinar, aprendogli un varco verso
l'uscita. «Vi lascerò andare, per ora: era nelle mie intenzioni
unicamente portarvi i miei omaggi, anche se sono certo avremo
occasione di colloquiare più serenamente in futuro. Onore e gloria,
Cavaliere di Solarniar», enunciò.
«Siete
stato fin troppo buono nel giudicarmi. Vi ringrazio per le vostre
parole, mio re. Onore e gloria alla Corona ed alla Folgore Divina»,
affermò prima di oltrepassarlo. Sentì su di sé il vigile sguardo
di un ragazzo che doveva avere qualche anno in meno di lui, posto
alla sinistra del sovrano. Condividevano la stessa tonalità degli
occhi, ed in essi Nhàr percepì una nota d'ammirazione nei suoi
confronti.
Finalmente
si tirò fuori da quel mare di persone, alcune delle quali
continuavano ad affluire verso l'interno del luogo sacro, mentre lui
quasi stava scappando con passo affrettato. L'alba stava lentamente
risvegliando la città, e l'attenzione del giovane non poté che
ricadere sulla corona d'oro raggiante posta sul capo di Re Kamen. Le
campane proseguirono a ridondare a cerimonia, annunciando al regno
quel prestigioso evento, che sarebbe stato rievocato dalle altre
chiese in tutto il regno, in un unico suono che avrebbe unito
Radharon tutta.
Nhàr
venne investito da un caldo sbuffo di vento, insolito per le
temperature d'inizio primavera; presto si accorse che le aure dei
quattro Guardiani Aurei si mostravano più intense che mai prima
d'allora. Le corazze scintillavano come gemme preziose ai suoi occhi,
ed ebbe l'impressione di avere i loro sguardi su di sé.
«Onore
e gloria, Cavaliere Divino!», affermarono d'un tratto, facendo
sobbalzare il giovane. Possedevano voci metalliche ed impostate, che
rendevano impossibile identificarne il sesso o l'età.
«Onore
e gloria a voi, Rùilvara», rispose prontamente Nhàr,
notando il suo amuleto di Solarniar splendere come il sole al centro
del petto. Accolse il simbolo fra le sue mani, e per un solo istante
ebbe l'impressione di attraversare i Tre Cieli, dove le tenebre non
avevano dimora. Chiuse gli occhi per trattenere a sé quella visione.
«Alla
fine nessuno dovrà scavare una fossa per voi, amico mio», esordì
Willrond con un largo sorriso, fermandosi ad ammirare l'alba al
centro dello spiazzo adiacente alla cattedrale. Il suo simbolo
splendeva allo stesso modo.
«Pare
proprio che dovranno rimandare, almeno per oggi. Ma ho sentito che
l'Errante di Ninsud mi tiene un posticino nei pressi della Pianura
Reale», commentò divertito Nhàr.
Risero
di gusto.
«Siamo
ufficialmente liberi di scegliere il nostro destino», disse
Willrond, poggiando le mani sul parapetto della piazza, continuando
ad osservare verso l'alba. «Alcuni di noi daranno subito una svolta
alla propria vita, altri attenderanno la consueta settimana di
preghiera, prima di intraprendere un nuovo cammino. È possibile che
rivedremo fra anni gli amici con cui siamo cresciuti...», constatò.
«Oppure
dovremo rimandare la rimpatriata nell'aldilà: otto Cavalieri Divini
promossi, è un evento raro. Nessuno si è ritirato. Esiste la
possibilità che qualcuno di noi non torni affatto dai prossimi
viaggi. Inizia la vera battaglia: là fuori è diverso, amico mio. Ma
sono questioni che probabilmente conosci meglio di me», rispose Nhàr
freddamente, affiancandolo.
«Siete
come al solito negativo», commentò l'altro.
«Sono
realista, che è ben diverso», puntualizzò il giovane.
«Vi
sbagliate. Siamo otto, e questo evento è raro, sì... ma anche di
buon auspicio. Gli occhi dell'intera Radharon, anzi, dell'intera
Draakhonsgaard sono su di noi, e se siamo stati capaci di arrivare
sin qui con questa determinazione, possiamo davvero compiere grandi
imprese. Dovreste avere maggiore fiducia!», spiegò pacatamente
Willrond, senza perdere il sorriso. Poi, lo incalzò: «Avete già
deciso cosa farete? Del vostro destino, beninteso».
Nhàr
sospirò, prendendosi qualche secondo per rispondere: «Credo proprio
che tornerò fra i campi di grano nell'Orenium, a Liolon. Sono
lontano da casa da quasi un anno, e temo di doverlo ammettere: mi
manca il profumo di casa, la mia famiglia, la semplicità della mia
gente e le chiacchiere di chi non conosce il mondo. Certo, è un
rapporto strano: allo stesso tempo odio la mia dimora. Considerato
che è di strada, penso che aggiungerò una tappa alla Bilancia
d'Oro!», disse ridacchiando, smorzando quell'istante di
eccessiva serietà. «Forse una settimana non sarà
sufficiente...», contemplò ad alta voce.
«Portate
i miei omaggi a vostro padre. A proposito, visto che state andando in
quella direzione, potreste parlare con Lioner prima di partire. Credo
abbia importanti scorte da far giungere ai templi nell'Orenium», lo
avvisò Willrond.
«Sì?!»,
commentò sghignazzando. «Voi che farete, Cavaliere? Anche se credo
di poter tirare ad indovinare: vogliamo scommettere?! Sarebbero soldi
facili».
«Dare
del voi? State facendo progressi!», lo canzonò il compagno.
Riprese con serenità: «Idregor mi vorrebbe operativo nell'attività
organizzativa della Folgore, già da domani. Mi ha consigliato come
maestro per allevare i più piccoli, che porterei avanti sino alla
loro effettiva promozione a Cavalieri Divini. Mi ritengo troppo
giovane, però. Vorrei fare esperienza sul campo, benché possa
vantarne parecchia al fianco del Gran Maestro... Ciò che non vorrei,
è apparire un privilegiato agli occhi del resto dell'Ordine. La mia
vicinanza a Re Arweinar, ad Idregor stesso... Capite?», confessò.
«E
quindi? Accettate!», lo strigliò. «Sbaglio, oppure è ciò che
avete sempre desiderato? Sono convinto che un giorno guiderete questo
glorioso Ordine. Inoltre, per quanto riguarda l'esperienza, avrete
parecchi mesi per dare prova delle vostre capacità: dovrete
attendere l'autunno per avere degli allievi, e saranno comunque
troppo piccoli per impegnarvi tutta la settimana; dunque avrete
abbastanza tempo per occuparvi di altre questioni, almeno nei primi
anni», affermò Nhàr, facendo riflettere il proprio compagno.
«Combatteremo insieme, qualche volta. Così vi ricorderò cosa
significa misurarsi realmente con un avversario!».
«Vi
ringrazio per i vostri consigli. A questo punto... è un arrivederci?
Oppure un addio?», chiese Willrond, non celando una nota malinconica
nella sua voce.
«Direi
un onore e gloria, Cavaliere!», rispose, poggiando
frettolosamente il palmo aperto della destra sul proprio petto, prima
di scendere i gradini a grandi falcate, proseguendo alle spalle di
una fanciulla dai setosi capelli corvini, che si stava avviando per
la Via dei Re.
«Il
solito Nhàr», sospirò Willrond.
Il
giovane fece un lungo balzo per superare gli ultimi sei scalini,
allungando il passo per raggiungere quella ragazza. Le si affiancò
moderando gradualmente la propria andatura, rimanendo in silenziò
finché lei non si accorse di averlo accanto. Lui era rimasto
incantato dalla prima volta che l'aveva scorta: lunghi capelli
corvini, tratti adeguatamente delicati, labbra carnose, occhi dello
stesso colore del limpido cielo ed una voce decisa ma gioviale;
inoltre, le sue forme promettevano un fisico ammaliante. Aveva scorto
donne incantevoli nella sua vita, come le dame elfiche, ma lei era
diversa: il suo carattere, unito al suo gradevolissimo aspetto,
accrescevano il fascino che era in grado di esercitare su chiunque la
circondasse.
«Per
tutti i Divini!», esclamò, sobbalzando.«Che fate, mi seguite?!».
«N-no.
Che dite?!», esordì lui, alzando le mani come a dimostrare la sua
innocenza. «Sono Nhàr, lady Leirien. Vi ricordate, ci siamo già
incontrati!».
«Non
sono una lady», rispose rimanendo sull'attenti. «Siete un Aspirante
della Folgore?», chiese la ragazza, incapace di non mostrarsi
divertita dal suo fare.
«No,
mia lady. Sono un Cavaliere Divino al servizio di Solarniar, che si
nutre dei puri raggi del giorno per combattere le viscide ombre che
strisciano sul nostro mondo. Sono qui per servirvi. Davvero non vi
ricordate di me? Quel pomeriggio al fiume....eravate con un'altra
dama... la vostra signora, immagino!», si fece avanti.
«Eravate
quello che spiava mentre facevamo il bagno?!», esclamò, attirando
l'attenzione dei passanti, prima di celare con un drappo della veste
il suo divertito ed incantevole sorriso, caratterizzato da
piccolissime fossette.
«Ma
no, che dite?! Ero quello che l'ha scacciato. Sir Nhàr!».
«Già.
Ora ricordo. Perdonatemi per i miei modi, ma ultimamente ho come
l'impressione di essere seguita», ammise la ragazza.
«Direi
che per ripagare l'offesa potrei farvi da scorta. Nessuno vi si
avvicinerà con me al vostro fianco, ed io andavo giusto in questa
direzione», disse porgendole il braccio, facendo per incamminarsi.
«Vi
asseconderò, Sir Nhàr. Almeno per questa volta. Vi ringrazio...
nuovamente», rispose, accogliendo il suo invito.
Quella
stessa sera il giovane sarebbe partito per Liolon. Apprezzava
viaggiare di notte, con la via sgombra e le stelle come uniche guide,
potendo così godere dell'alba e del tramonto: momenti che dedicava
alla preghiera, oltre che ad una profonda ed illuminante riflessione.
Sentiva la sua fede rafforzarsi, ed il suo passo più sicuro ad ogni
giorno di viaggio. Lioner gli aveva affidato l'incarico di consegnare
alcuni importarti materiali rituali ai templi lungo la Via dei
Mercanti d'Oro, ed approfittò del compito per chiudersi in orazione
in ognuno di essi, ritrovando una pace ed una serenità che a lungo
aveva smarrito.
Le
vie di Radharon erano sempre state sicure, e nessun intervento gli fu
richiesto. Gioì della compagnia dei Guardiani incaricati di
sorvegliare quell'importante tratta commerciale, ed ebbe parecchio da
domandare ad uno dei soldati più giovani, che diede lui parecchie
attenzioni. Si nutrì della sua storia, che nulla di triste aveva da
raccontare, bensì di uomini votati all'onore ed alla protezione dei
propri cari e delle proprie tradizioni. Il suo nome era Vort, e gli
rivelò che, essendo sua madre originaria dei paesi orientali, al suo
gemello era stato impedito di divenire un Guardiano Radharoniano. Gli
racconto dei Grifoni di Norwengaard: il fratello era sparito fra le
loro fila. Aveva già sentito parlare di quella straordinaria élite
militare, ed era rimasto affascinato dal duro addestramento a cui era
da sempre sottoposta. Abbandonò il gruppo di Guardiani non appena
sorta l'alba, rassicurandosi del fatto che la via fosse tranquilla
davanti a sé.
Fece
tappa alla Bilancia d'Oro, come aveva confidato a Willrond, dove si
concesse una giornata di totale riposo, beandosi delle prelibatezze e
delle bevande che rendevano unico il soggiorno in quella locanda. Ciò
che più apprezzava di quel luogo, però, era udire i canti dei
bardi, all'interno dei quali un giorno confidava che sarebbero state
elogiate le sue imprese.
Il
ritorno a Liolon di Nhàr venne accolto e celebrato con una sontuosa
festa, dove tutta la cittadina venne invitata, ed anche i villaggi
nei dintorni si presentarono, portando i loro omaggi ed i loro doni,
che vennero condivisi con tutti gli invitati – anche gli imbucati.
Suo padre, uno dei pochi nobili della città, aveva voluto esagerare,
e per mesi i cittadini avrebbero ricordato quel giorno, in cui Liolon
venne agghindata come una taverna a cielo aperto, con le vie
lastricate di tavoli ricoperti di prelibatezze giunte da ogni dove:
le genti del piccolo borgo supportarono quell'evento offrendo la
propria mobilia, disponendola all'esterno delle case, affinché i
viandanti ed i concittadini potessero sedere uno accanto all'altro,
sì da celebrare adeguatamente quel momento irripetibile. Numerosi
furono i musici assoldati – e non – che si presentarono alla
festa, animandola con le loro doti, donando a quei paesaggi dorati
una sonorità che sarebbe a lungo rimasta impressa nelle menti degli
invitati.. Molti di loro vantavano di appartenere all'Accademia della
Musa Bendata, che aveva sede a Norwengaard, capitale del regno
orientale di Dorean. Tale evento ricevette un adeguato
festeggiamento, anche per il fatto che Nhàr non era il primo
cavaliere della sua famiglia: su nonno, infatti, aveva militato nei
Guardiani di Èndhàr'
Kròn.
Il
ritrovarsi nella sua città, benché avesse accusato nostalgia nei
suoi confronti, lo stancò presto, specialmente a causa delle
pressanti domande dei cittadini: ci fu chi gli domandava se avesse
ucciso dei Draghi, chi se si fosse mai trovato al cospetto del Re,
chi se la capitale fosse sopravvissuta al terribile incendio che
l'aveva devastata anni prima, chi domandava se la terribile malattia
fosse stata debellata, e chi gli chiedeva nuovamente quanti Draghi
avesse ucciso. Finì per ritornare ad apprezzare il caos (se così
poteva definirsi) della Città della Legge, dove i Cavalieri Divini
erano tenuti in grande considerazione, ma non venivano assaliti e
martellati di domande, poiché scorgerli era ormai divenuta una
routine.
Al
dodicesimo giorno fu nuovamente dentro le mura di Èndhàr' Kròn, e
non poté che esserne felice; tirò un profondo sospiro di sollievo:
si sentì finalmente libero dal senso di oppressione che l'aveva
attanagliato durante la permanenza nel suo paese, e per lui fu un
enorme liberazione poter discutere liberamente con alcuni dei
Guardiani di ronda presso le porte, dai quali ricevette pacate
attenzioni. Evidenti erano le differenze che dividevano i borghi
dell'entroterra dalle grandi città: i primi legati alle antiche
tradizioni, specialmente quelli più occidentali, e le seconde
avvolte da una sconsiderata normalità, che oramai considerava comune
la presenza dei Cavalieri Divini, veri e propri emissari degli Dei in
terra.
Le
leggende raccontavano che, in tempi assai antichi, ognuno di loro
veniva ammirato, ed in pochi osavano rivolgergli parola. I paladini
erano riservati, e di rado parlavano in pubblico, limitandosi a
portare lo stendardo della pace. Poi, col passare delle ere, il loro
numero crebbe, ed alcuni di essi assunsero cariche esterne alla loro
mansione, prestando la loro voce per importanti eventi, sino a
trasformarsi in vere e proprie icone per i popoli. Nhàr rimpiangeva
quei giorni.
La
capitale aveva mantenuto la propria armonia, e niente d'insolito
l'aveva turbata durante l'assenza del paladino; per cercare i guai
occorreva andare verso nord, oltre lo Stretto di Thyr, oppure
girovagare per le Punte dei Dardi a sud, che brulicavano di sinistre
ombre a caccia di prede facili. La Folgore aveva già disposto
l'invio di alcuni membri dell'Ordine proprio a settentrione, per
sgominare le minacce che stavano incutendo timore nei cuori della
popolazione, e sarebbe stato proprio Willrond a fare da capo alla
spedizione. Incontrò il compagno proprio mentre si apprestava ad
abbandonare la città in sella ad un cavallo rinomato per la sua
irrequietezza, eppure quello pareva assecondare senza troppe lagne le
volontà del suo cavaliere.
«Neanche
il tempo di un saluto davanti ad una pinta?», chiese Nhàr,
lasciando crescere un ghigno divertito sulle sue labbra.
«Temo
abbiate ecceduto nello starvene ad oziare: Radharon... anzi,
Draakhonsgaard ha bisogno di voi!», lo ammonì il compagno.
«Ricordate,
Willrond: la pazienza è la virtù di un paladino!», lo sbeffeggiò.
«Abbandonate
l'astio che vi corrode, ed i dubbi che nutrite verso il vostro
futuro. Malgrado quanto è accaduto siete tornato a casa, per
festeggiare nello stesso luogo ove questa storia ha avuto inizio, con
le stesse persone che hanno deciso per vostro conto. Sapete di
possedere abbastanza maturità da comprendere quanto sia infantile
questo vostro comportamento!», esclamò, girandogli attorno in sella
alla suo destriero. «Che sia stata una vostra scelta, o qualcuno vi
abbia costretto su questa via in passato, non ha più importanza,
Cavaliere Divino: ora state calcando il sentiero degli Dei, e vi è
più di un motivo se siete sopravvissuto. Accettate ciò che siete
divenuto», lo incalzò freddamente. Il tono dell'amico era mutato in
quei pochi giorni, presentandosi ora più autorevole che al momento
della cerimonia. Il suo sguardo aveva iniziato ad essere
impenetrabile, quasi allo stesso modo di Idregor. La differenza fra i
due si accorciava sempre più, come la loro capacità di mettere in
soggezione con il verbo.
«Allora
ho paura che coloro che servo dovranno attendere qualche ora in più,
Will. Ho bisogno di buttare giù qualcosa di veramente forte: venite
con me alla locanda?!», rispose Nhàr, spensierato più che mai,
ignorando quanto gli era appena stato detto.
«Spero
bere sia la vostra più grande e nascosta dote, Cavaliere Divino»,
esordì una pacata voce maschile alle sue spalle. Dava l'impressione
di essere giovanile, benché celasse nel suo timbro una rara
risolutezza. «Poiché avrei bisogno di un valido seguace con cui
condividere un'impresa che richiede del fegato».
«Seguace?»,
ripeté grattandosi la barba con il dorso della mano. «Che sia un
duello di lame, dove il primo sangue va versato, oppure uno scontro
di boccali, dove schiuma e aurei nettari van trangugiati, non ho
rivali: io non seguo, io...», fece per proseguire voltandosi.
Le
parole gli morirono sulle labbra, quando notò che alle sue spalle si
trovava un biondo che lo superava di poco in altezza, ed i suoi occhi
celesti lo scrutavano con interesse, lasciando trapelare una
straordinaria conoscenza, che poteva evincersi addirittura dalla sua
postura impeccabile; nonostante dovesse avere all'incirca la sua età,
o forse qualche anno in più. Egli indossava gli abiti dell'Ordine
dell'Antica Runa, contraddistinti da una tunica argentea e da un
mantello colore dell'ebano, oltre al simbolo di quell'ordine: una
stele avvolta da un drago di platino.
Nhàr
era a conoscenza di quei cavalieri, anche se raramente aveva avuto
modo di scorgerli allenarsi, o addirittura combattere; era un gruppo
d'élite che aveva sede all'interno della stessa Folgore Divina, ma i
loro affari erano piuttosto segreti.
Si
diceva che i due Ordini collaborassero, benché lui mai avesse avuto
modo di provarlo. Le parole gli vennero meno più per la sorpresa,
che per un fatto di rispetto. Rimase a fissarlo, domandandosi cosa si
celasse dietro quell'individuo, finché la sua risata non lo spiazzò.
«Quello
che si racconta sul vostro conto è vero, dunque. È un piacere fare
la vostra conoscenza, Sir Nhàr. Il mio nome è Reaven, Cavaliere
dell'Ordine dell'Antica Runa. Vi porgo i miei saluti, Willrond»,
disse porgendo la mano al ragazzo. La sua compostezza era estranea al
suo aspetto, pareva quasi fin troppo giovane per il ruolo che
ricopriva. Il suo accento era straordinariamente pulito, prova che
non fosse propriamente della capitale.
«Sir
Reaven», rispose pacatamente il compagno.
«La
solita storia, dunque: tutti conoscono me, ma io non conosco nessuno.
Inaspettato!», commentò con un ghigno divertito. «Si era parlato
di bere, o sbaglio?», avanzò poi, stringendogli la mano.
Il
Cavaliere della Runa fece lui cenno di precederlo.
«Will?»,
chiese Nhàr sollevando un sopracciglio.
«Ho
già svolto la mia mansione, per oggi. I vostri affari mi
appartengono, ma in maniera differente. Ricordate quanto vi ho detto,
amico. Prevedo un futuro colmo di soddisfazioni nel vostro cammino,
se solo avrete la forza di accettare ciò che siete diventato», si
congedò, indirizzando il proprio cavallo verso un manipolo di
soldati che l'attendeva nei pressi dei giardini della cattedrale.
Il
tragitto sino alla Locanda Dei Venti fu silenzioso, e le prime parole
vennero fuori solo quando i due si ritrovarono davanti ad una pinta
di Bahorbirra.
Il locale era affollato come al solito, ma il brusio che lo
contraddistingueva consentiva loro di poter colloquiare senza dover
sollevare il tono:
«Supponevo
si trattasse di una gara di bevute», ammise Nhàr, parzialmente
deluso, avvedendosi del fatto che nessuna tavolata fosse stata
imbandita per l'evento.
«Nessuna
gara. Almeno, non di bevute. È una corsa contro il tempo: sto
radunando un gruppo di volontari per recarmi a nord, oltre il Ponte
di Thyr, dove il male che a lungo ha perdurato sta continuando ad
elargire sofferenza ai popoli che vivono nelle zone centrali. Come
saprai, sono lande fuori da ogni legge, dove nessuno dei regni di
Draakhonsgaard ha mai osato rimettere piede, dopo la caduta
dell'Impero del Diamante. La Guerra degli Dei non ha sancito la fine
definitiva dell'immenso male che anelava Glandirn; ed alcune delle
immonde creature che l'hanno provocata continuano a disseminare quei
territori delle loro corrotte forze», spiegò Reaven, dandogli poi
qualche istante per metabolizzare le informazioni. Quindi riprese:
«Cerco volontari per una grande impresa, ma temo che, di coloro che
mi seguiranno, pochi torneranno a casa. Non voglio che vi sentiate
costretto ad accettare, né tanto meno che il vostro nome possa
macchiarsi, mancando alla chiamata del dovere. Scendiamo in battaglia
contro la morte stessa, ed essa sarà premurosa di elargire il suo
potere su di noi».
«Accetto»,
affermò Nhàr, dopo aver trangugiato ciò che restava dello scuro
liquido, prelibatezza nanica. «Ma solo dopo l'ultima pinta. Immagino
ci sia dell'altro...», disse, sollevando la mano per richiamare uno
dei garzoni vestiti di rosso, con l'intento di richiedere il secondo
giro.
«Il
nostro bersaglio è una straordinaria entità che la maggior parte di
Draakhonsgaard ha scordato. Per nostra fortuna non ha avuto la
possibilità di scendere sul campo durante la Guerra degli Dei, e ciò
ha concesso al bene di trionfare. Ma, alcuni secoli fa, qualcuno ha
sciolto il sigillo che li teneva imprigionati e, benché
Draakhonsgaard fosse riuscita a prevalere sul male, loro hanno
perseverato nel portare avanti i piani del proprio padrone. L'Ordine
dell'Antica Runa ha largamente affrontato questa piaga, limitando i
danni che avrebbe potuto causare, se lasciata libera di manifestarsi
in tutto il suo potere. Molte sono state le vittime», spiegò Reaven
senza spezzare il contatto visivo. «Ora... molti dei nostri sono
impegnati in una campagna che si estende dalle terre centrali sino
alle Terre del Nord, nel Regno di Hiemstir», prese a raccontare,
dopo aver brindato alla scelta del cavaliere. Riprese con maggiore
serietà: «Stiamo per affrontare uno dei membri delle Lingue
di Hail Vas».
Nhàr
deglutì.
Aveva
già udito quel nome all'interno delle mura della Folgore, e la sua
curiosità l'aveva spinto ad indagare sul ruolo di quell'antico ed
oscuro Ordine: solo nei testi più antichi erano riportate le vicende
che vedevano le Lingue di Hail Vas protagoniste di scempi, di veri e
propri massacri. Lo splendore dell'Impero del Diamante aveva
occultato le ombre che quel gruppo era stato in grado di proiettare
sui suoi territori, e la caduta di Glandirn aveva cancellato quei
terribili ricordi dalle memorie dei popoli, ma non dalle pagine della
storia. Purtroppo era stato sorpreso nella biblioteca privata di
Lioner prima che potesse giungere alla conclusione di quel tomo, ed
il suo sgarro gli era costato un'amara punizione.
Stette
in silenzio, ad attendere che Reaven proseguisse con il suo racconto.
«Precisamente,
stiamo per affrontare una delle
Cinque Falci di Oblius:
Siniord. È l'ultimo del suo macabro Ordine. Possiamo chiudere questa
faccenda, e finalmente rasserenare le terre centrali, ma sono pochi
quelli che hanno risposto alla chiamata. Avrei fatto appello ai miei
compagni, ma in questo momento non possono abbandonare i loro
incarichi. Vi starete chiedendo perché io non attenda il loro
ritorno... », fece per proseguire, ma fu lo stesso Nhàr a
rispondergli:
«Non
si può aspettare. Se rappresenta un tale pericolo, ogni passo che
compie significa dover impiegare uno sforzo maggiore per arrestarlo
in futuro, oltre che nuove vittime da aggiungere alla sua lunga
lista. Le mie conoscenze su questo individuo sono limitate ma, se ha
scoraggiato più di un servitore degli Dei, sospetto si possa
scherzare ben poco quando si parla di lui. Come ho già detto: sono
con voi», riconfermò con maggiore serietà, abbandonando il suo
boccale. Quella pareva un'occasione irripetibile per mettere alla
prova il suo destino: se a farlo divenire un cavaliere era stata
realmente la volontà degli Dei, loro l'avrebbero guidato verso la
battaglia, dritto al successo; altrimenti il suo posto sarebbe stato
fra coloro che avrebbero riempito una fossa a poca distanza
dall'incoronazione.
«Dovrete
tenervi pronto per questa notte: la Cittadella del Viandante,
Glabrin, è caduta sotto il suo attacco poco prima dell'alba. Siniord
ha trucidato i Guardiani, ed abbattuto ogni difesa, fiondandosi sui
cittadini. È un essere spregevole, ed il suo compito è sempre stato
quello di elargire morte ovunque andasse. Chiunque lo abbia
affrontato in uno scontro corpo a corpo, purtroppo è caduto»,
rivelò tenendo bassa la voce, come a cercare di non seminare il
panico. Proseguì dopo un lungo sorso: «La sua ascia bipenne è in
grado di trapassare qualsiasi corazza mortale, e di rubare il candore
dell'anima. I morti ritornano alla vita, schiavi del suo volere.
Vedrai qualcosa che ancora non hai mai avuto la possibilità di
scorgere; affronterai nemici che solitamente ad un giovane Cavaliere
Divino vengono risparmiati. Dicono di voi che avete un grande
coraggio, e che sapete combattere con una dedizione alla causa che
pochi sanno mostrare: ciò che vi richiedo per questo compito, però,
è di forgiare il vostro spirito, preparandolo ad uno scontro che va
ben oltre il nostro mondo, e che s'intreccia a quello degli Dei»,
gli rivelò, sostenendo il suo sguardo.
«Credo
di aver atteso per tutta la vita questo momento: risponderò alla
chiamata al dovere. Che debba affrontare Siniorn, o lo stesso Hail
Vas, non importa. Chiunque si frapporrà fra me ed il mio destino,
avrà da lamentarsi della mia cocciutaggine», rispose stringendo i
pugni.
«Sono
contento abbiate scelto di affiancarmi in questa impresa, Sir Nhàr.
Ci vedremo alle porte della cattedrale, poco dopo il tramonto. Avete
poco tempo a vostra disposizione, spendetelo bene: potrebbe essere
l'ultima volta che vediamo questi paesaggi», affermò, prima di
alzarsi. Si congedò con il tipico saluto dei Cavalieri dell'Antica
Runa: il palmo poggiato sul cuore, con pollice, anulare e mignolo
chiusi per metà, come a rappresentare un'ala.
Nhàr
rimase a fissarlo mentre si allontanava, dopo aver pagato con alcune
Corone di Platino. Aveva sulle labbra il sapore di quella scura e
prelibata bevanda nanica, ed essa aveva contribuito ad offuscargli
parzialmente la mente, lanciandola in molti pensieri che a lungo
aveva chiuso dentro di sé. Era una decisione che non poteva più
ritrattare: sarebbe andato contro la morte, inconsapevole di cosa
fosse realmente la vita.
Ripensò
per un istante a tutto ciò che non aveva potuto fare nella sua breve
esistenza, a ciò che aveva perduto: essere un cavaliere valeva
realmente la perdita dei piaceri della vita? Forse, a distanza di una
settimana, si sarebbe ritrovato con il volto immerso nel fango,
caduto proprio per mano di quell'avversario. Si chiedeva se avrebbe
rimpianto il fatto di non aver mai amato, di non aver provato cosa
significa avere dei figli, invecchiare, fumare per l'ultima volta o
semplicemente starsene sdraiato sulle rocce ai piedi del mare a
perdere tempo.
«Che
faccia da funerale!», commentò una voce femminile, appartenente ad
una ragazza che gli stava proprio seduta davanti. Era talmente
assorto in quei pensieri che la bellezza di quella dama era passata
inosservata ai suoi occhi; quei suoi lunghi capelli corvini erano
raccolti dietro da alcune piccole trecce, ed i suoi occhi del colore
del cielo lo fissavano con aria divertita. «Chi è morto?!»,
domandò la giovane donna.
«“Il
mio cuor, nel vedervi seduta proprio dinanzi a me, ed aver mancato il
vostro arrivo. Qual sciocco mortal sarebbe tanto sbadato, da perder
cotal bellezza, per futili memorie di spade e sangue, che non
dovrebbero appartenergli. Cado in errore, ma anche ai vostri piedi,
se solo questo fosse il vostro desiderio: chiedetemi di restare, e
non volerò in cerca di un nido; chiedetemi di restare, e morirei fra
le vostre braccia!”»,
le confessò, sporgendosi sul tavolo, sino a sfiorar quasi il naso
della ragazza.
L'indice
della stessa lo respinse all'indietro, mentre uno dei suoi ammalianti
sorrisi lo rendeva schiavo delle sue parole: «Si chiama rubare,
Nhàr, l'atto di far proprie le parole altrui. I bardi non
gradirebbero tale furto!», rispose con la sua soave voce.
«Vi
sbagliate, Leirien: si chiama prendere in prestito!», ribatté il
Cavaliere Divino. «Allora, a cosa devo questa visita?».
«La
casualità», ammise guardandosi attorno.
«Il
caso non esiste: tutto accade esattamente per un motivo. Suppongo gli
Dei abbiano intenzione di spronarmi a fare la prima mossa... Ho tempo
sino al tramonto, e mi è stato consigliato di trascorrere
saggiamente questo intervallo nel migliore dei modi: e quale sarebbe
in grado di competere con la vostra deliziosa compagnia?», confessò
sforzandosi di rimanere serio.
«Sapete
di essere un adulatore!? Passarlo con vecchie amicizie?», suppose
ridendo lei, sviando il discorso.
Nhàr
storse il naso, sorpreso da quella risposta.
«Capisco...»,
disse facendo per alzarsi.
«
Andate via?», domandò dispiaciuta.
«No,
Leirien. Credo ad altri spetti la vostra totale compagnia, in questo
momento. È un posto troppo affollato, però, e vi suggerirei di
trovare dei luoghi più riparati. Il giudizio delle persone necessita
di maggior tempo per mutare. È un buon uomo, e vi ho prestato
volentieri il mio aiuto per scagionarlo. Gli Dei hanno deciso»,
sussurrò, vedendo qualcuno avvicinarsi al loro tavolo imbacuccato.
«Nhàr...
Che intendete dire?», chiese Leirien, alzandosi, trattenendolo
dolcemente per un braccio. Gli volse uno dei suoi raggianti sorrisi,
che fu in grado di trafiggerlo più a fondo della punta di una
lancia.
«Quando
tornerò da questo viaggio, vorrei potervi parlare... C'è qualcosa
di diverso quando guardo nei vostri occhi, ed in ciò che vedo nella
mia figura riflessa in essi. Quando sento la vostra voce pronunciare
il mio nome. Prendetevi cura di Kornelius. Sùilad...», rispose,
volgendole un amaro sorriso.
«Attenderò
il vostro ritorno, Nhàr», ammise prima che il cavaliere si
dileguasse.
I
contorni della cattedrale erano avvolti da una fitta nebbiolina, che
impediva di lanciare al cielo uno sguardo speranzoso. La città stava
lentamente scivolando nel sonno, e fuori dal luogo di culto le genti
si preparavano a tornare nelle proprie dimore. Vi sarebbe stato chi
si sarebbe rivolto agli Dei nell'arco di quella misteriosa notte, in
un costante via vai di fedeli.
Ciò
malgrado, Nhàr sembrava totalmente indifferente a quel passaggio,
come se il tempo si fosse fermato dentro di sé. Se ne stava ad una
manciata di passi dai Guardiani Aurei, ed a tratti gli pareva quasi
di percepire il loro sguardo su di sé. Si chiese perché, in un
momento tanto importante, nessuno di loro si muovesse per affrontare
quel male giunto dalle epoche antiche, così da risparmiare ai
Cavalieri Divini il rischio di cadere contro un nemico tanto crudele.
Quale ruolo avevano, oltre starsene là in piedi ad oziare tutto il
giorno?
Rabbrividì,
consapevole che egli era uno dei pochi che non sarebbe potuto
scappare in preda alla paura o, perlomeno, questo era ciò che aveva
sempre avvertito durante uno scontro; se proprio avesse mai deciso di
scappare, sarebbe stato a causa di una ponderata riflessione, nel
caso la sua vita fosse posta seriamente a rischio, con la totale
consapevolezza di non avere possibilità alcuna di sopravvivere.
Strinse maggiormente la presa sull'elsa dello spadone che portava a
tracolla, agganciato alla lucida corazza completa (priva dell'elmo),
appartenuta a suo nonno. Erano ben pochi i solchi che sporcavano la
sua discreta fattura, ma negli anni si era sempre mostrata
un'armatura affidabile. Il peso lo faceva sentire totalmente
protetto, ed il calore lo allontanava dai cupi pensieri che si
stavano plasmando come un cancro nella sua mente.
«Nhàr:
è giunto il momento!», annunciò Reaven, invitandolo ad accedere
alla cattedrale.
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