Gli Eroi dell'Alba: La Lama dei Redentori - Capitolo I





Sùilad!
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In entrambi i casi potrete leggere la prima parte del romanzo. Di seguito posterò direttamente qui sotto il seguito, in aggiornamenti mensili. Potrebbe venirne fuori un intero libro online! Vi auguro una buona lettura!

NB: Ringrazio Simone Muzzoni e Marta Simula per aver collaborato alla sistemazione delle bozze.







Oppure continua a leggere...





Gli Eroi dell'Alba






















Giovanni Giuseppe Pintore

Gli Eroi dell'Alba
La Lama dei Redentori


Illustrazione a cura di Costantino Nieddu




A tutti coloro che amano sognare.








Capitolo I
Il Cavaliere di Solarniar







Un copioso sbuffo di fumo avvolse il cielo, catturando quel solitario spicchio di luna in un perfetto e largo anello che presto si sarebbe dissolto, seguito da altri più stretti. Il caos del giorno era venuto meno, ed ora regnava una totale quiete davanti alla statua di Re Kamen, situata esattamente al centro della piazza che al celebre sovrano era stata dedicata. Le fiaccole, sorrette dai venti guardiani a sua protezione, esaltavano quella maestosa e vigile figura, che su tutti i suoi figli vegliava durante la notte. La sua corona, quasi fosse giorno, irradiava ancora lo stesso splendore d'un tempo, capace di far apparire pieno di vita il monumento di quel saggio eroe, che i secoli aveva potuto osservare dal suo piedistallo, beandosi della rosea crescita di Èndhàr' Kròn e del Regno di Radharon.
«Un Cavaliere Divino non dovrebbe avere vizi», l'ammonì la rigida voce di Willrond, che intanto gli si era accostato sugli ultimi scalini della rampa. La sua pelle mulatta appariva appena più scura alla luce delle fiaccole, creando uno strano contrasto con gli occhi color nocciola, nei quali si riflettevano le fiamme ardenti.
«A mia discolpa, amico mio, posso dire di non esserlo ancora», rispose beffardamente Nhàr, prendendo un altro gran tiro dalla pipa. Poi, trattenendo il fumo, aggiunse: «Lasciami godere di questi miei ultimi istanti di piacere mortale, considerato che mi attende un'eternità di negazione. Oppure una di dannazione».
«A vedervi, benché indossiate gli abiti della Folgore, e stando a ciò che dite, si riesce a stento a credere di aver davanti un Aspirante. Sarebbe saggio comportarsi adeguatamente, almeno in attesa del verdetto dei Cinque Divini. Dovreste considerarla meno tragica: anche se non date a vederlo, sono certo che desideriate dimostrare di essere degno di rivestire questo ruolo nella nostra società».
«Non mi restano molte alternative», borbottò fra alcuni colpi di tosse. Poi, dopo aver tirato su col naso ed essersi strofinato le nocche sul mento barbuto, unico elemento in grado di rendere la sua pelle appena più scura, rispetto al pallore che lo contraddistingueva, riprese: «O supero l'alba, oppure dovranno scavare una fossa in più. Riesci ad immaginarti: io che stramazzo al suolo davanti a tutti, preda di chissà quale orribile spasmo di dolore. Le divinità sanno essere crudeli, talvolta. Spero almeno che Solarniar abbia preso in considerazione il mio senso dell'umorismo: questo dovrebbe avvantaggiarmi... in qualche assurdo modo», azzardò.
«Umorismo, eh?», sospirò Idregor, discendendo la rampa, sino ad ergersi proprio davanti a loro in tutta la sua cospostezza. «Dovreste lavorarci su, perché spesso è stato scambiato per maleducazione, Nhàr. L'evento di cui parlate si è già verificato in passato, e vi assicuro che non è mai stato un grandioso spettacolo. Di rado, però. Generalmente gli allievi sono abbastanza saggi da sottrarsi all'ultima prova».
«Maestro!», disse Willrond, mettendosi in piedi. Il compagno si limitò a fare spallucce ed un cenno del capo, allargando le braccia in risposta alle parole del Gran Maestro della Folgore Divina.
Il soldato indossava un abito color nocciola, la spada lunga pendeva sul fianco destro, ed il pomolo della stessa serviva a ricordare al mondo quale carica egli ricoprisse, ed il fatto che appartenesse ad un ordine prestigioso. Era un uomo sulla quarantina, anche se la sua età era rinvigorita dai lunghi capelli, raccolti in una coda, e da una curata barba nera. Parecchie cicatrici marcavano la sua rosea pelle, simbolo dell'estenuante lotta che aveva ingaggiato contro le forze del male. I suoi occhi erano di un celeste intenso, e si specchiavano ora in quelli del colore delle praterie di Nhàr. Almeno per l'aspetto, maestro ed allievo si somigliavano parecchio, a differenza dei loro caratteri. Willrond aveva imparato ad apprezzarli entrambi.
«Quindi è colpa mia se gli altri si offendono? Devo essere sincero... sono quasi un Cavaliere Divino, e non posso mentire: se uno ha una brutta faccia, mi sento in dovere di ricordarglielo!», rispose divertito il giovane uomo; aggiungendo, mentre svuotava la pipa dentro un apposito piccolo contenitore di metallo: «E nella maggior parte dei casi, quelli a cui ho rivolto le mie attenzioni puzzavano di losco... Ed il mio fiuto ha difatti trovato delle carogne».
«Su questo non possiamo darvi torto, Nhàr. Sarete un Cavaliere Divino però, ed i vostri modi potrebbero essere più affabili; dovreste levigarli, affinché possiate gestire adeguatamente ogni situazione», chiarì scuotendo il capo.«Ad ogni modo, se vi ho raggiunti qui non era di certo per farvi la ramanzina. Ci tenevo a dirvi che sono fiero di voi: vi siete comportati egregiamente nella scorsa prova, mettendo in mostra le vostre capacità e gli insegnamenti che avete appreso in questi duri anni, attraverso il vostro costante impegno nella causa. In voi scorgo un immenso potenziale, e molto ancora vi aspetta dopo quest'alba. Avrete solo ricordi delle mie lezioni, ed altri apprenderanno dal vostro operato...», disse, fermandosi all'udire di zoccoli sul ciottolato, volgendo il suo sguardo in direzione della Via dei Re, che conduceva direttamente alla porta est.
«Gaklin!», esclamò Willrond, scorgendo il Nano avanzare in loro direzione a bordo di una carrozza, portata avanti da una coppia di Shire.
«Oh, che sorpresa! Quanto tempo, giovane Will: siete cresciuto dall'ultima volta!», vociò ben poco garbatamente quello, invitando i destrieri a fermarsi.
«La luce di Solarniar sta per affacciarsi su di noi, Aspiranti: andate a prepararvi, la cerimonia sta per iniziare», annunciò il Gran Maestro, prendendo poi a raggiungere il Nano. «Sùilad! Credevo non sareste riuscito ad essere presente, vecchio mio; invece, eccovi qui a fare baccano prima che sorga il sole. Il popolo ancora dorme», lo rimproverò con garbo.
«Sùilad un corno di Drago! Per tutte le fucine di Domitrhon, è questo il modo di accogliere un Nano? Neanche mi lasciate il tempo di arrivare, che mi aggredite con quella parolaccia elfica: aspettate almeno che prenda due boccali di Bahòrbirra, prima d'iniziare ad insultarci!», rispose Gaklin, ergendosi sulla carovana con i pugni sui fianchi. Riuscì a reggere quella farsa per pochi secondi, prima di scoppiare in una fragorosa risata, tanto che il Gran Maestro dovette invitarlo nuovamente a contenere i propri toni. «Credevate che mi sarei perso i vostri primi otto?».
Nhàr rise di gusto, come Willrond d'altra parte, ed anticipò il compagno nella salita verso la cattedrale. Le due coppie di Guardiani Aurei, posti a protezione dell'ingresso, non si erano smossi neanche con tutto quel baccano. Se ne stavano immobili, quasi fossero statue, chiusi dentro le loro eleganti armature dorate, rifinite in ogni dettaglio, che niente del loro fisico mortale lasciavano trasparire.
Indossavano elmi pieni, con un mento a “V” che ricadeva sul pettorale; due feritoie diagonali erano poste all'altezza degli occhi, mentre una serie di scanalature con piccoli fori si aprivano corrispettivamente alla bocca. Sulla sommità della fronte si protendeva uno sperone che, allargandosi in un ristretto cono verso la nuca, ospitava una lunga criniera argentea che ricadeva sul loro candido mantello. La loro imponenza era accentuata dalla lunga alabarda dorata che brandivano, alla quale davano l'impressione di sorreggersi durante la loro guardia. Erano figure che ispiravano un profondo rispetto, oltre che una devozione sovrannaturale alla causa della Folgore.
Si raccontavano molte storie sul loro conto, ma solo chi era addentro ai piani dell'Ordine della Folgore Divina era a conoscenza della realtà che si celava dietro tanta riservatezza. Si diceva che i loro nomi fossero ormai divenuti obsoleti per la carica che impersonavano, e molti Cavalieri Divini si riferivano ad essi con il termine Rùilvara, che nella lingua degli Dei – il chelestian – aveva il significato di “Patroni”.
Al semplice sguardo del popolo potevano apparire solo quattro soldati ben agghindati a parata, destinati in quel ruolo al solo scopo di elevare la magnificenza ed il prestigio della cattedrale alle loro spalle; ma dietro alla loro guardia si celava una verità che era preclusa ai più, e solo poiché non erano in grado di vederla con i propri occhi. Nhàr aveva sempre percepito una profonda sensazione lenitiva per il suo spirito al semplice passarvi accanto, e si era sempre sentito al sicuro affianco ad uno di loro. Eppure, mai li aveva uditi parlare, visti mangiare o semplicemente vagare per la cattedrale. Erano sempre stati lì, immobili nello svolgere la loro mansione. Ciò che sapeva di concreto, era che il Patriarca Lioner aveva imposto agli Aspiranti di non disturbarli, per nessun motivo, eccetto in casi di estremo pericolo.
«Sbrigati, Nhàr. Dobbiamo prepararci per la cerimonia!», gli disse Willrond, precedendolo all'interno della cattedrale.
Il giovane uomo diede un ultimo sguardo ai quattro, prima di seguire il compagno: il momento della verità stava per giungere, e gli Dei avrebbero deciso chi di loro sarebbe stato meritevole di servirli. La vita e la morte erano divise da un sottilissimo filo, sul quale ognuno di loro si teneva in equilibrio.
La cerimonia sarebbe durata poco più di una comune messa, ed il Patriarca avrebbe dato fondo a tutte le sue scorte di parole d'incoraggiamento per confortare gli agitati cuori degli Aspiranti. Gli otto presero un lungo sorso dalla coppa dorata, irradiata dal primo raggio del giorno, che Lioner aveva loro offerto: era calda, ed al suo interno si trovava un liquido torbido e biancastro, il cui odore ricordava vagamente quello del miele; lo chiamavano estratto di Flospiritum, il Fiore del Sole e della Luna, ed ingerirlo costituiva l'ultima prova che era loro richiesta.
Nhàr fu il secondo della fila, subito dopo Willrond. Una sensazione di calore lo pervase, e percepì i suoi sensi affinarsi, con un brivido che gli percorse la schiena; si sentì diverso, come se il peso di una grossa responsabilità ora gravasse sulla sua persona; eppure avvertì un'estrema leggerezza d'animo: ora era libero di respirare a pieni polmoni mentre nuovo energie prendevano a rinvigorire il suo corpo. Non si era mai sentito tanto sereno ed in forma in vita sua, quasi fosse rinato in quel preciso istante.
Le congratulazioni iniziarono a piovere da ogni dove, da volti conosciuti e non, con la cattedrale che brulicava più che mai di esponenti ecclesiastici provenienti da ogni parte di Draakhonsgaard, tutti desiderosi di celebrare quell'evento: nuovi Cavalieri Divini si apprestavano a servire l'Ordine della Folgore Divina, bramosi di portare lo stendardo della luce ove le ombre dimorano.
Èndhàr' Kròn non era l'unico luogo consentito ove i paladini potevano ottenere l'incoronazione, anzi, molti erano i Templi dei Cinque Divini sparsi su tutta Draakhonsgaard che si occupavano proprio di ciò. La sua importanza era dovuta al prestigio della capitale che, oltre ad essere il centro vitale di Rhadaron, rappresentava anche il fulcro dello stesso Ordine della Folgore, considerato che il Patriarca in persona viveva fra le mura della cattedrale.
Nhàr storse il naso: apprezzava il fatto di essere elogiato, quando ciò avveniva moderatamente, ma tutti quei complimenti ancora sentiva di non meritarli, poiché niente di concreto era ancora stato da lui compiuto. Poi, fra la folla si aprì un varco che conduceva verso l'uscita, ed il giovane si lasciò tentare dalla fuga, prendendo le distanze dai compagni, ancora troppo sommersi da quelli che Nhàr definiva “inutili convenevoli”.
Quella breccia fra le persone si concluse con un vicolo cieco, proprio a pochi metri dal portone, e furono tre incappucciati a sbarrargli la strada, cosa insolita per quel luogo di culto, ove vigeva l'obbligo di scoprire il proprio volto per omaggiare i Cinque Divini.
Nhàr era sempre stato un buon osservatore, ed il suo sguardo ricadde inevitabilmente sul tessuto di quella larga mantella dal colore della cenere, quindi sui pregiati stivali di pelle, tutt'altro che consumati. Giunse a soli sei passi di distanza, quindi fece per inchinarsi, ma l'incappucciato al centro lo tirò gentilmente su per una spalla.
«Discrezione, mio giovane Cavaliere Divino. Discrezione», gli sussurrò una elegante e rassicurante voce, dal timbro regale e pacato. «Solo dinanzi agli Dei avete il dovere di prostrarvi, quest'oggi. Lasciate che i mortali stiano al loro posto».
«Perdonatemi. Per me è un onore, Sire...», ebbe solo la facoltà di esalare, abbassando lo sguardo. Da quella figura, ancor prima di raggiungerla, aveva percepito irradiarsi un'aura strepitosa, capace di confortare ed alleviare l'animo. Non era il suo aspetto, ma il portamento ed il carisma a conferirgli l'eccezionalità che tutti potevano ammirare ed adorare nella sua nobile figura. Era Re Arweinar, Signore di Èndhàr' Kròn, Sovrano di Radharon, figlio della celebre dinastia Searider.
«Alzate lo sguardo, Nhàr. Lasciate che questo vecchio possa ammirare la sincerità della gioventù mutare in saggezza, e l'innocenza divenir veicolo di pace. Siete ciò che un tempo io fui, siete il futuro di queste terre», aggiunse l'uomo.
«Sarò sempre al servizio della Corona, sotto la vostra misericordiosa e saggia guida, Sire», affermò risoluto il neo cavaliere. I suoi occhi incrociarono quelli color dell'oceano del sovrano, rimanendo intrappolati in uno sguardo che pareva custodire ogni risposta, austero ma al contempo generoso, imperscrutabile ed ammaliante. Nessuno che aveva conosciuto possedeva lo stesso portamento.
«Ho seguito il vostro addestramento, e sono rimasto piacevolmente colpito dalle imprese che siete stato in grado di portare a termine, nonostante la vostra giovane età. Sir Idregor ed il giovane Willrond mi hanno parlato molto di voi: ingannate la vostra gioventù con un aspetto più rude, che vi lascia apparire più adulto agli occhi di chi v'incontra, sintomo del desiderio di non voler essere sottovalutato», lo elogiò Arweinar, aprendogli un varco verso l'uscita. «Vi lascerò andare, per ora: era nelle mie intenzioni unicamente portarvi i miei omaggi, anche se sono certo avremo occasione di colloquiare più serenamente in futuro. Onore e gloria, Cavaliere di Solarniar», enunciò.
«Siete stato fin troppo buono nel giudicarmi. Vi ringrazio per le vostre parole, mio re. Onore e gloria alla Corona ed alla Folgore Divina», affermò prima di oltrepassarlo. Sentì su di sé il vigile sguardo di un ragazzo che doveva avere qualche anno in meno di lui, posto alla sinistra del sovrano. Condividevano la stessa tonalità degli occhi, ed in essi Nhàr percepì una nota d'ammirazione nei suoi confronti.
Finalmente si tirò fuori da quel mare di persone, alcune delle quali continuavano ad affluire verso l'interno del luogo sacro, mentre lui quasi stava scappando con passo affrettato. L'alba stava lentamente risvegliando la città, e l'attenzione del giovane non poté che ricadere sulla corona d'oro raggiante posta sul capo di Re Kamen. Le campane proseguirono a ridondare a cerimonia, annunciando al regno quel prestigioso evento, che sarebbe stato rievocato dalle altre chiese in tutto il regno, in un unico suono che avrebbe unito Radharon tutta.
Nhàr venne investito da un caldo sbuffo di vento, insolito per le temperature d'inizio primavera; presto si accorse che le aure dei quattro Guardiani Aurei si mostravano più intense che mai prima d'allora. Le corazze scintillavano come gemme preziose ai suoi occhi, ed ebbe l'impressione di avere i loro sguardi su di sé.
«Onore e gloria, Cavaliere Divino!», affermarono d'un tratto, facendo sobbalzare il giovane. Possedevano voci metalliche ed impostate, che rendevano impossibile identificarne il sesso o l'età.
«Onore e gloria a voi, Rùilvara», rispose prontamente Nhàr, notando il suo amuleto di Solarniar splendere come il sole al centro del petto. Accolse il simbolo fra le sue mani, e per un solo istante ebbe l'impressione di attraversare i Tre Cieli, dove le tenebre non avevano dimora. Chiuse gli occhi per trattenere a sé quella visione.
«Alla fine nessuno dovrà scavare una fossa per voi, amico mio», esordì Willrond con un largo sorriso, fermandosi ad ammirare l'alba al centro dello spiazzo adiacente alla cattedrale. Il suo simbolo splendeva allo stesso modo.
«Pare proprio che dovranno rimandare, almeno per oggi. Ma ho sentito che l'Errante di Ninsud mi tiene un posticino nei pressi della Pianura Reale», commentò divertito Nhàr.
Risero di gusto.
«Siamo ufficialmente liberi di scegliere il nostro destino», disse Willrond, poggiando le mani sul parapetto della piazza, continuando ad osservare verso l'alba. «Alcuni di noi daranno subito una svolta alla propria vita, altri attenderanno la consueta settimana di preghiera, prima di intraprendere un nuovo cammino. È possibile che rivedremo fra anni gli amici con cui siamo cresciuti...», constatò.
«Oppure dovremo rimandare la rimpatriata nell'aldilà: otto Cavalieri Divini promossi, è un evento raro. Nessuno si è ritirato. Esiste la possibilità che qualcuno di noi non torni affatto dai prossimi viaggi. Inizia la vera battaglia: là fuori è diverso, amico mio. Ma sono questioni che probabilmente conosci meglio di me», rispose Nhàr freddamente, affiancandolo.
«Siete come al solito negativo», commentò l'altro.
«Sono realista, che è ben diverso», puntualizzò il giovane.
«Vi sbagliate. Siamo otto, e questo evento è raro, sì... ma anche di buon auspicio. Gli occhi dell'intera Radharon, anzi, dell'intera Draakhonsgaard sono su di noi, e se siamo stati capaci di arrivare sin qui con questa determinazione, possiamo davvero compiere grandi imprese. Dovreste avere maggiore fiducia!», spiegò pacatamente Willrond, senza perdere il sorriso. Poi, lo incalzò: «Avete già deciso cosa farete? Del vostro destino, beninteso».
Nhàr sospirò, prendendosi qualche secondo per rispondere: «Credo proprio che tornerò fra i campi di grano nell'Orenium, a Liolon. Sono lontano da casa da quasi un anno, e temo di doverlo ammettere: mi manca il profumo di casa, la mia famiglia, la semplicità della mia gente e le chiacchiere di chi non conosce il mondo. Certo, è un rapporto strano: allo stesso tempo odio la mia dimora. Considerato che è di strada, penso che aggiungerò una tappa alla Bilancia d'Oro!», disse ridacchiando, smorzando quell'istante di eccessiva serietà. «Forse una settimana non sarà sufficiente...», contemplò ad alta voce.
«Portate i miei omaggi a vostro padre. A proposito, visto che state andando in quella direzione, potreste parlare con Lioner prima di partire. Credo abbia importanti scorte da far giungere ai templi nell'Orenium», lo avvisò Willrond.
«Sì?!», commentò sghignazzando. «Voi che farete, Cavaliere? Anche se credo di poter tirare ad indovinare: vogliamo scommettere?! Sarebbero soldi facili».
«Dare del voi? State facendo progressi!», lo canzonò il compagno. Riprese con serenità: «Idregor mi vorrebbe operativo nell'attività organizzativa della Folgore, già da domani. Mi ha consigliato come maestro per allevare i più piccoli, che porterei avanti sino alla loro effettiva promozione a Cavalieri Divini. Mi ritengo troppo giovane, però. Vorrei fare esperienza sul campo, benché possa vantarne parecchia al fianco del Gran Maestro... Ciò che non vorrei, è apparire un privilegiato agli occhi del resto dell'Ordine. La mia vicinanza a Re Arweinar, ad Idregor stesso... Capite?», confessò.
«E quindi? Accettate!», lo strigliò. «Sbaglio, oppure è ciò che avete sempre desiderato? Sono convinto che un giorno guiderete questo glorioso Ordine. Inoltre, per quanto riguarda l'esperienza, avrete parecchi mesi per dare prova delle vostre capacità: dovrete attendere l'autunno per avere degli allievi, e saranno comunque troppo piccoli per impegnarvi tutta la settimana; dunque avrete abbastanza tempo per occuparvi di altre questioni, almeno nei primi anni», affermò Nhàr, facendo riflettere il proprio compagno. «Combatteremo insieme, qualche volta. Così vi ricorderò cosa significa misurarsi realmente con un avversario!».
«Vi ringrazio per i vostri consigli. A questo punto... è un arrivederci? Oppure un addio?», chiese Willrond, non celando una nota malinconica nella sua voce.
«Direi un onore e gloria, Cavaliere!», rispose, poggiando frettolosamente il palmo aperto della destra sul proprio petto, prima di scendere i gradini a grandi falcate, proseguendo alle spalle di una fanciulla dai setosi capelli corvini, che si stava avviando per la Via dei Re.
«Il solito Nhàr», sospirò Willrond.

Il giovane fece un lungo balzo per superare gli ultimi sei scalini, allungando il passo per raggiungere quella ragazza. Le si affiancò moderando gradualmente la propria andatura, rimanendo in silenziò finché lei non si accorse di averlo accanto. Lui era rimasto incantato dalla prima volta che l'aveva scorta: lunghi capelli corvini, tratti adeguatamente delicati, labbra carnose, occhi dello stesso colore del limpido cielo ed una voce decisa ma gioviale; inoltre, le sue forme promettevano un fisico ammaliante. Aveva scorto donne incantevoli nella sua vita, come le dame elfiche, ma lei era diversa: il suo carattere, unito al suo gradevolissimo aspetto, accrescevano il fascino che era in grado di esercitare su chiunque la circondasse.
«Per tutti i Divini!», esclamò, sobbalzando.«Che fate, mi seguite?!».
«N-no. Che dite?!», esordì lui, alzando le mani come a dimostrare la sua innocenza. «Sono Nhàr, lady Leirien. Vi ricordate, ci siamo già incontrati!».
«Non sono una lady», rispose rimanendo sull'attenti. «Siete un Aspirante della Folgore?», chiese la ragazza, incapace di non mostrarsi divertita dal suo fare.
«No, mia lady. Sono un Cavaliere Divino al servizio di Solarniar, che si nutre dei puri raggi del giorno per combattere le viscide ombre che strisciano sul nostro mondo. Sono qui per servirvi. Davvero non vi ricordate di me? Quel pomeriggio al fiume....eravate con un'altra dama... la vostra signora, immagino!», si fece avanti.
«Eravate quello che spiava mentre facevamo il bagno?!», esclamò, attirando l'attenzione dei passanti, prima di celare con un drappo della veste il suo divertito ed incantevole sorriso, caratterizzato da piccolissime fossette.
«Ma no, che dite?! Ero quello che l'ha scacciato. Sir Nhàr!».
«Già. Ora ricordo. Perdonatemi per i miei modi, ma ultimamente ho come l'impressione di essere seguita», ammise la ragazza.
«Direi che per ripagare l'offesa potrei farvi da scorta. Nessuno vi si avvicinerà con me al vostro fianco, ed io andavo giusto in questa direzione», disse porgendole il braccio, facendo per incamminarsi.
«Vi asseconderò, Sir Nhàr. Almeno per questa volta. Vi ringrazio... nuovamente», rispose, accogliendo il suo invito.

Quella stessa sera il giovane sarebbe partito per Liolon. Apprezzava viaggiare di notte, con la via sgombra e le stelle come uniche guide, potendo così godere dell'alba e del tramonto: momenti che dedicava alla preghiera, oltre che ad una profonda ed illuminante riflessione. Sentiva la sua fede rafforzarsi, ed il suo passo più sicuro ad ogni giorno di viaggio. Lioner gli aveva affidato l'incarico di consegnare alcuni importarti materiali rituali ai templi lungo la Via dei Mercanti d'Oro, ed approfittò del compito per chiudersi in orazione in ognuno di essi, ritrovando una pace ed una serenità che a lungo aveva smarrito.
Le vie di Radharon erano sempre state sicure, e nessun intervento gli fu richiesto. Gioì della compagnia dei Guardiani incaricati di sorvegliare quell'importante tratta commerciale, ed ebbe parecchio da domandare ad uno dei soldati più giovani, che diede lui parecchie attenzioni. Si nutrì della sua storia, che nulla di triste aveva da raccontare, bensì di uomini votati all'onore ed alla protezione dei propri cari e delle proprie tradizioni. Il suo nome era Vort, e gli rivelò che, essendo sua madre originaria dei paesi orientali, al suo gemello era stato impedito di divenire un Guardiano Radharoniano. Gli racconto dei Grifoni di Norwengaard: il fratello era sparito fra le loro fila. Aveva già sentito parlare di quella straordinaria élite militare, ed era rimasto affascinato dal duro addestramento a cui era da sempre sottoposta. Abbandonò il gruppo di Guardiani non appena sorta l'alba, rassicurandosi del fatto che la via fosse tranquilla davanti a sé.
Fece tappa alla Bilancia d'Oro, come aveva confidato a Willrond, dove si concesse una giornata di totale riposo, beandosi delle prelibatezze e delle bevande che rendevano unico il soggiorno in quella locanda. Ciò che più apprezzava di quel luogo, però, era udire i canti dei bardi, all'interno dei quali un giorno confidava che sarebbero state elogiate le sue imprese.
Il ritorno a Liolon di Nhàr venne accolto e celebrato con una sontuosa festa, dove tutta la cittadina venne invitata, ed anche i villaggi nei dintorni si presentarono, portando i loro omaggi ed i loro doni, che vennero condivisi con tutti gli invitati – anche gli imbucati. Suo padre, uno dei pochi nobili della città, aveva voluto esagerare, e per mesi i cittadini avrebbero ricordato quel giorno, in cui Liolon venne agghindata come una taverna a cielo aperto, con le vie lastricate di tavoli ricoperti di prelibatezze giunte da ogni dove: le genti del piccolo borgo supportarono quell'evento offrendo la propria mobilia, disponendola all'esterno delle case, affinché i viandanti ed i concittadini potessero sedere uno accanto all'altro, sì da celebrare adeguatamente quel momento irripetibile. Numerosi furono i musici assoldati – e non – che si presentarono alla festa, animandola con le loro doti, donando a quei paesaggi dorati una sonorità che sarebbe a lungo rimasta impressa nelle menti degli invitati.. Molti di loro vantavano di appartenere all'Accademia della Musa Bendata, che aveva sede a Norwengaard, capitale del regno orientale di Dorean. Tale evento ricevette un adeguato festeggiamento, anche per il fatto che Nhàr non era il primo cavaliere della sua famiglia: su nonno, infatti, aveva militato nei Guardiani di Èndhàr' Kròn.
Il ritrovarsi nella sua città, benché avesse accusato nostalgia nei suoi confronti, lo stancò presto, specialmente a causa delle pressanti domande dei cittadini: ci fu chi gli domandava se avesse ucciso dei Draghi, chi se si fosse mai trovato al cospetto del Re, chi se la capitale fosse sopravvissuta al terribile incendio che l'aveva devastata anni prima, chi domandava se la terribile malattia fosse stata debellata, e chi gli chiedeva nuovamente quanti Draghi avesse ucciso. Finì per ritornare ad apprezzare il caos (se così poteva definirsi) della Città della Legge, dove i Cavalieri Divini erano tenuti in grande considerazione, ma non venivano assaliti e martellati di domande, poiché scorgerli era ormai divenuta una routine.
Al dodicesimo giorno fu nuovamente dentro le mura di Èndhàr' Kròn, e non poté che esserne felice; tirò un profondo sospiro di sollievo: si sentì finalmente libero dal senso di oppressione che l'aveva attanagliato durante la permanenza nel suo paese, e per lui fu un enorme liberazione poter discutere liberamente con alcuni dei Guardiani di ronda presso le porte, dai quali ricevette pacate attenzioni. Evidenti erano le differenze che dividevano i borghi dell'entroterra dalle grandi città: i primi legati alle antiche tradizioni, specialmente quelli più occidentali, e le seconde avvolte da una sconsiderata normalità, che oramai considerava comune la presenza dei Cavalieri Divini, veri e propri emissari degli Dei in terra.
Le leggende raccontavano che, in tempi assai antichi, ognuno di loro veniva ammirato, ed in pochi osavano rivolgergli parola. I paladini erano riservati, e di rado parlavano in pubblico, limitandosi a portare lo stendardo della pace. Poi, col passare delle ere, il loro numero crebbe, ed alcuni di essi assunsero cariche esterne alla loro mansione, prestando la loro voce per importanti eventi, sino a trasformarsi in vere e proprie icone per i popoli. Nhàr rimpiangeva quei giorni.
La capitale aveva mantenuto la propria armonia, e niente d'insolito l'aveva turbata durante l'assenza del paladino; per cercare i guai occorreva andare verso nord, oltre lo Stretto di Thyr, oppure girovagare per le Punte dei Dardi a sud, che brulicavano di sinistre ombre a caccia di prede facili. La Folgore aveva già disposto l'invio di alcuni membri dell'Ordine proprio a settentrione, per sgominare le minacce che stavano incutendo timore nei cuori della popolazione, e sarebbe stato proprio Willrond a fare da capo alla spedizione. Incontrò il compagno proprio mentre si apprestava ad abbandonare la città in sella ad un cavallo rinomato per la sua irrequietezza, eppure quello pareva assecondare senza troppe lagne le volontà del suo cavaliere.
«Neanche il tempo di un saluto davanti ad una pinta?», chiese Nhàr, lasciando crescere un ghigno divertito sulle sue labbra.
«Temo abbiate ecceduto nello starvene ad oziare: Radharon... anzi, Draakhonsgaard ha bisogno di voi!», lo ammonì il compagno.
«Ricordate, Willrond: la pazienza è la virtù di un paladino!», lo sbeffeggiò.
«Abbandonate l'astio che vi corrode, ed i dubbi che nutrite verso il vostro futuro. Malgrado quanto è accaduto siete tornato a casa, per festeggiare nello stesso luogo ove questa storia ha avuto inizio, con le stesse persone che hanno deciso per vostro conto. Sapete di possedere abbastanza maturità da comprendere quanto sia infantile questo vostro comportamento!», esclamò, girandogli attorno in sella alla suo destriero. «Che sia stata una vostra scelta, o qualcuno vi abbia costretto su questa via in passato, non ha più importanza, Cavaliere Divino: ora state calcando il sentiero degli Dei, e vi è più di un motivo se siete sopravvissuto. Accettate ciò che siete divenuto», lo incalzò freddamente. Il tono dell'amico era mutato in quei pochi giorni, presentandosi ora più autorevole che al momento della cerimonia. Il suo sguardo aveva iniziato ad essere impenetrabile, quasi allo stesso modo di Idregor. La differenza fra i due si accorciava sempre più, come la loro capacità di mettere in soggezione con il verbo.
«Allora ho paura che coloro che servo dovranno attendere qualche ora in più, Will. Ho bisogno di buttare giù qualcosa di veramente forte: venite con me alla locanda?!», rispose Nhàr, spensierato più che mai, ignorando quanto gli era appena stato detto.
«Spero bere sia la vostra più grande e nascosta dote, Cavaliere Divino», esordì una pacata voce maschile alle sue spalle. Dava l'impressione di essere giovanile, benché celasse nel suo timbro una rara risolutezza. «Poiché avrei bisogno di un valido seguace con cui condividere un'impresa che richiede del fegato».
«Seguace?», ripeté grattandosi la barba con il dorso della mano. «Che sia un duello di lame, dove il primo sangue va versato, oppure uno scontro di boccali, dove schiuma e aurei nettari van trangugiati, non ho rivali: io non seguo, io...», fece per proseguire voltandosi.
Le parole gli morirono sulle labbra, quando notò che alle sue spalle si trovava un biondo che lo superava di poco in altezza, ed i suoi occhi celesti lo scrutavano con interesse, lasciando trapelare una straordinaria conoscenza, che poteva evincersi addirittura dalla sua postura impeccabile; nonostante dovesse avere all'incirca la sua età, o forse qualche anno in più. Egli indossava gli abiti dell'Ordine dell'Antica Runa, contraddistinti da una tunica argentea e da un mantello colore dell'ebano, oltre al simbolo di quell'ordine: una stele avvolta da un drago di platino.
Nhàr era a conoscenza di quei cavalieri, anche se raramente aveva avuto modo di scorgerli allenarsi, o addirittura combattere; era un gruppo d'élite che aveva sede all'interno della stessa Folgore Divina, ma i loro affari erano piuttosto segreti.
Si diceva che i due Ordini collaborassero, benché lui mai avesse avuto modo di provarlo. Le parole gli vennero meno più per la sorpresa, che per un fatto di rispetto. Rimase a fissarlo, domandandosi cosa si celasse dietro quell'individuo, finché la sua risata non lo spiazzò.
«Quello che si racconta sul vostro conto è vero, dunque. È un piacere fare la vostra conoscenza, Sir Nhàr. Il mio nome è Reaven, Cavaliere dell'Ordine dell'Antica Runa. Vi porgo i miei saluti, Willrond», disse porgendo la mano al ragazzo. La sua compostezza era estranea al suo aspetto, pareva quasi fin troppo giovane per il ruolo che ricopriva. Il suo accento era straordinariamente pulito, prova che non fosse propriamente della capitale.
«Sir Reaven», rispose pacatamente il compagno.
«La solita storia, dunque: tutti conoscono me, ma io non conosco nessuno. Inaspettato!», commentò con un ghigno divertito. «Si era parlato di bere, o sbaglio?», avanzò poi, stringendogli la mano.
Il Cavaliere della Runa fece lui cenno di precederlo.
«Will?», chiese Nhàr sollevando un sopracciglio.
«Ho già svolto la mia mansione, per oggi. I vostri affari mi appartengono, ma in maniera differente. Ricordate quanto vi ho detto, amico. Prevedo un futuro colmo di soddisfazioni nel vostro cammino, se solo avrete la forza di accettare ciò che siete diventato», si congedò, indirizzando il proprio cavallo verso un manipolo di soldati che l'attendeva nei pressi dei giardini della cattedrale.

Il tragitto sino alla Locanda Dei Venti fu silenzioso, e le prime parole vennero fuori solo quando i due si ritrovarono davanti ad una pinta di Bahorbirra. Il locale era affollato come al solito, ma il brusio che lo contraddistingueva consentiva loro di poter colloquiare senza dover sollevare il tono:
«Supponevo si trattasse di una gara di bevute», ammise Nhàr, parzialmente deluso, avvedendosi del fatto che nessuna tavolata fosse stata imbandita per l'evento.
«Nessuna gara. Almeno, non di bevute. È una corsa contro il tempo: sto radunando un gruppo di volontari per recarmi a nord, oltre il Ponte di Thyr, dove il male che a lungo ha perdurato sta continuando ad elargire sofferenza ai popoli che vivono nelle zone centrali. Come saprai, sono lande fuori da ogni legge, dove nessuno dei regni di Draakhonsgaard ha mai osato rimettere piede, dopo la caduta dell'Impero del Diamante. La Guerra degli Dei non ha sancito la fine definitiva dell'immenso male che anelava Glandirn; ed alcune delle immonde creature che l'hanno provocata continuano a disseminare quei territori delle loro corrotte forze», spiegò Reaven, dandogli poi qualche istante per metabolizzare le informazioni. Quindi riprese: «Cerco volontari per una grande impresa, ma temo che, di coloro che mi seguiranno, pochi torneranno a casa. Non voglio che vi sentiate costretto ad accettare, né tanto meno che il vostro nome possa macchiarsi, mancando alla chiamata del dovere. Scendiamo in battaglia contro la morte stessa, ed essa sarà premurosa di elargire il suo potere su di noi».
«Accetto», affermò Nhàr, dopo aver trangugiato ciò che restava dello scuro liquido, prelibatezza nanica. «Ma solo dopo l'ultima pinta. Immagino ci sia dell'altro...», disse, sollevando la mano per richiamare uno dei garzoni vestiti di rosso, con l'intento di richiedere il secondo giro.
«Il nostro bersaglio è una straordinaria entità che la maggior parte di Draakhonsgaard ha scordato. Per nostra fortuna non ha avuto la possibilità di scendere sul campo durante la Guerra degli Dei, e ciò ha concesso al bene di trionfare. Ma, alcuni secoli fa, qualcuno ha sciolto il sigillo che li teneva imprigionati e, benché Draakhonsgaard fosse riuscita a prevalere sul male, loro hanno perseverato nel portare avanti i piani del proprio padrone. L'Ordine dell'Antica Runa ha largamente affrontato questa piaga, limitando i danni che avrebbe potuto causare, se lasciata libera di manifestarsi in tutto il suo potere. Molte sono state le vittime», spiegò Reaven senza spezzare il contatto visivo. «Ora... molti dei nostri sono impegnati in una campagna che si estende dalle terre centrali sino alle Terre del Nord, nel Regno di Hiemstir», prese a raccontare, dopo aver brindato alla scelta del cavaliere. Riprese con maggiore serietà: «Stiamo per affrontare uno dei membri delle Lingue di Hail Vas».
Nhàr deglutì.
Aveva già udito quel nome all'interno delle mura della Folgore, e la sua curiosità l'aveva spinto ad indagare sul ruolo di quell'antico ed oscuro Ordine: solo nei testi più antichi erano riportate le vicende che vedevano le Lingue di Hail Vas protagoniste di scempi, di veri e propri massacri. Lo splendore dell'Impero del Diamante aveva occultato le ombre che quel gruppo era stato in grado di proiettare sui suoi territori, e la caduta di Glandirn aveva cancellato quei terribili ricordi dalle memorie dei popoli, ma non dalle pagine della storia. Purtroppo era stato sorpreso nella biblioteca privata di Lioner prima che potesse giungere alla conclusione di quel tomo, ed il suo sgarro gli era costato un'amara punizione.
Stette in silenzio, ad attendere che Reaven proseguisse con il suo racconto.
«Precisamente, stiamo per affrontare una delle Cinque Falci di Oblius: Siniord. È l'ultimo del suo macabro Ordine. Possiamo chiudere questa faccenda, e finalmente rasserenare le terre centrali, ma sono pochi quelli che hanno risposto alla chiamata. Avrei fatto appello ai miei compagni, ma in questo momento non possono abbandonare i loro incarichi. Vi starete chiedendo perché io non attenda il loro ritorno... », fece per proseguire, ma fu lo stesso Nhàr a rispondergli:
«Non si può aspettare. Se rappresenta un tale pericolo, ogni passo che compie significa dover impiegare uno sforzo maggiore per arrestarlo in futuro, oltre che nuove vittime da aggiungere alla sua lunga lista. Le mie conoscenze su questo individuo sono limitate ma, se ha scoraggiato più di un servitore degli Dei, sospetto si possa scherzare ben poco quando si parla di lui. Come ho già detto: sono con voi», riconfermò con maggiore serietà, abbandonando il suo boccale. Quella pareva un'occasione irripetibile per mettere alla prova il suo destino: se a farlo divenire un cavaliere era stata realmente la volontà degli Dei, loro l'avrebbero guidato verso la battaglia, dritto al successo; altrimenti il suo posto sarebbe stato fra coloro che avrebbero riempito una fossa a poca distanza dall'incoronazione.
«Dovrete tenervi pronto per questa notte: la Cittadella del Viandante, Glabrin, è caduta sotto il suo attacco poco prima dell'alba. Siniord ha trucidato i Guardiani, ed abbattuto ogni difesa, fiondandosi sui cittadini. È un essere spregevole, ed il suo compito è sempre stato quello di elargire morte ovunque andasse. Chiunque lo abbia affrontato in uno scontro corpo a corpo, purtroppo è caduto», rivelò tenendo bassa la voce, come a cercare di non seminare il panico. Proseguì dopo un lungo sorso: «La sua ascia bipenne è in grado di trapassare qualsiasi corazza mortale, e di rubare il candore dell'anima. I morti ritornano alla vita, schiavi del suo volere. Vedrai qualcosa che ancora non hai mai avuto la possibilità di scorgere; affronterai nemici che solitamente ad un giovane Cavaliere Divino vengono risparmiati. Dicono di voi che avete un grande coraggio, e che sapete combattere con una dedizione alla causa che pochi sanno mostrare: ciò che vi richiedo per questo compito, però, è di forgiare il vostro spirito, preparandolo ad uno scontro che va ben oltre il nostro mondo, e che s'intreccia a quello degli Dei», gli rivelò, sostenendo il suo sguardo.
«Credo di aver atteso per tutta la vita questo momento: risponderò alla chiamata al dovere. Che debba affrontare Siniorn, o lo stesso Hail Vas, non importa. Chiunque si frapporrà fra me ed il mio destino, avrà da lamentarsi della mia cocciutaggine», rispose stringendo i pugni.
«Sono contento abbiate scelto di affiancarmi in questa impresa, Sir Nhàr. Ci vedremo alle porte della cattedrale, poco dopo il tramonto. Avete poco tempo a vostra disposizione, spendetelo bene: potrebbe essere l'ultima volta che vediamo questi paesaggi», affermò, prima di alzarsi. Si congedò con il tipico saluto dei Cavalieri dell'Antica Runa: il palmo poggiato sul cuore, con pollice, anulare e mignolo chiusi per metà, come a rappresentare un'ala.
Nhàr rimase a fissarlo mentre si allontanava, dopo aver pagato con alcune Corone di Platino. Aveva sulle labbra il sapore di quella scura e prelibata bevanda nanica, ed essa aveva contribuito ad offuscargli parzialmente la mente, lanciandola in molti pensieri che a lungo aveva chiuso dentro di sé. Era una decisione che non poteva più ritrattare: sarebbe andato contro la morte, inconsapevole di cosa fosse realmente la vita.
Ripensò per un istante a tutto ciò che non aveva potuto fare nella sua breve esistenza, a ciò che aveva perduto: essere un cavaliere valeva realmente la perdita dei piaceri della vita? Forse, a distanza di una settimana, si sarebbe ritrovato con il volto immerso nel fango, caduto proprio per mano di quell'avversario. Si chiedeva se avrebbe rimpianto il fatto di non aver mai amato, di non aver provato cosa significa avere dei figli, invecchiare, fumare per l'ultima volta o semplicemente starsene sdraiato sulle rocce ai piedi del mare a perdere tempo.
«Che faccia da funerale!», commentò una voce femminile, appartenente ad una ragazza che gli stava proprio seduta davanti. Era talmente assorto in quei pensieri che la bellezza di quella dama era passata inosservata ai suoi occhi; quei suoi lunghi capelli corvini erano raccolti dietro da alcune piccole trecce, ed i suoi occhi del colore del cielo lo fissavano con aria divertita. «Chi è morto?!», domandò la giovane donna.
«“Il mio cuor, nel vedervi seduta proprio dinanzi a me, ed aver mancato il vostro arrivo. Qual sciocco mortal sarebbe tanto sbadato, da perder cotal bellezza, per futili memorie di spade e sangue, che non dovrebbero appartenergli. Cado in errore, ma anche ai vostri piedi, se solo questo fosse il vostro desiderio: chiedetemi di restare, e non volerò in cerca di un nido; chiedetemi di restare, e morirei fra le vostre braccia!”», le confessò, sporgendosi sul tavolo, sino a sfiorar quasi il naso della ragazza.
L'indice della stessa lo respinse all'indietro, mentre uno dei suoi ammalianti sorrisi lo rendeva schiavo delle sue parole: «Si chiama rubare, Nhàr, l'atto di far proprie le parole altrui. I bardi non gradirebbero tale furto!», rispose con la sua soave voce.
«Vi sbagliate, Leirien: si chiama prendere in prestito!», ribatté il Cavaliere Divino. «Allora, a cosa devo questa visita?».
«La casualità», ammise guardandosi attorno.
«Il caso non esiste: tutto accade esattamente per un motivo. Suppongo gli Dei abbiano intenzione di spronarmi a fare la prima mossa... Ho tempo sino al tramonto, e mi è stato consigliato di trascorrere saggiamente questo intervallo nel migliore dei modi: e quale sarebbe in grado di competere con la vostra deliziosa compagnia?», confessò sforzandosi di rimanere serio.
«Sapete di essere un adulatore!? Passarlo con vecchie amicizie?», suppose ridendo lei, sviando il discorso.
Nhàr storse il naso, sorpreso da quella risposta.
«Capisco...», disse facendo per alzarsi.
« Andate via?», domandò dispiaciuta.
«No, Leirien. Credo ad altri spetti la vostra totale compagnia, in questo momento. È un posto troppo affollato, però, e vi suggerirei di trovare dei luoghi più riparati. Il giudizio delle persone necessita di maggior tempo per mutare. È un buon uomo, e vi ho prestato volentieri il mio aiuto per scagionarlo. Gli Dei hanno deciso», sussurrò, vedendo qualcuno avvicinarsi al loro tavolo imbacuccato.
«Nhàr... Che intendete dire?», chiese Leirien, alzandosi, trattenendolo dolcemente per un braccio. Gli volse uno dei suoi raggianti sorrisi, che fu in grado di trafiggerlo più a fondo della punta di una lancia.
«Quando tornerò da questo viaggio, vorrei potervi parlare... C'è qualcosa di diverso quando guardo nei vostri occhi, ed in ciò che vedo nella mia figura riflessa in essi. Quando sento la vostra voce pronunciare il mio nome. Prendetevi cura di Kornelius. Sùilad...», rispose, volgendole un amaro sorriso.
«Attenderò il vostro ritorno, Nhàr», ammise prima che il cavaliere si dileguasse.

I contorni della cattedrale erano avvolti da una fitta nebbiolina, che impediva di lanciare al cielo uno sguardo speranzoso. La città stava lentamente scivolando nel sonno, e fuori dal luogo di culto le genti si preparavano a tornare nelle proprie dimore. Vi sarebbe stato chi si sarebbe rivolto agli Dei nell'arco di quella misteriosa notte, in un costante via vai di fedeli.
Ciò malgrado, Nhàr sembrava totalmente indifferente a quel passaggio, come se il tempo si fosse fermato dentro di sé. Se ne stava ad una manciata di passi dai Guardiani Aurei, ed a tratti gli pareva quasi di percepire il loro sguardo su di sé. Si chiese perché, in un momento tanto importante, nessuno di loro si muovesse per affrontare quel male giunto dalle epoche antiche, così da risparmiare ai Cavalieri Divini il rischio di cadere contro un nemico tanto crudele. Quale ruolo avevano, oltre starsene là in piedi ad oziare tutto il giorno?
Rabbrividì, consapevole che egli era uno dei pochi che non sarebbe potuto scappare in preda alla paura o, perlomeno, questo era ciò che aveva sempre avvertito durante uno scontro; se proprio avesse mai deciso di scappare, sarebbe stato a causa di una ponderata riflessione, nel caso la sua vita fosse posta seriamente a rischio, con la totale consapevolezza di non avere possibilità alcuna di sopravvivere. Strinse maggiormente la presa sull'elsa dello spadone che portava a tracolla, agganciato alla lucida corazza completa (priva dell'elmo), appartenuta a suo nonno. Erano ben pochi i solchi che sporcavano la sua discreta fattura, ma negli anni si era sempre mostrata un'armatura affidabile. Il peso lo faceva sentire totalmente protetto, ed il calore lo allontanava dai cupi pensieri che si stavano plasmando come un cancro nella sua mente.
«Nhàr: è giunto il momento!», annunciò Reaven, invitandolo ad accedere alla cattedrale.

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