Inizio, centro e fine.
È
la solita, stupida commedia americana
Questa è un'opera di fantasia.Ogni riferimento a fatti, cose, persone reali e non, è puramente voluto.Il contenuto di questo racconto può nuocere gravemente alle menti sensibili, prive di Fantasia.
Era una
buia giornata tempestosa, immersa dentro un mare d'acqua che piombava
dal cielo come le saette che lo illuminavano. Il vento ululava
selvaggio per le deserte vie della città, rendendosi l'unico
cittadino di quel centro defunto, come il sole oltre le coltri
d'ebano, che stringevano in un pugno di ridondanti singhiozzi i suoni
della capitale. Il mare danzava irrequieto e schiumoso, invitando le
imbarcazioni a seguirlo in quel ballo mortale che pochi avrebbe
risparmiato.
«Finiremo
sugli scogli, Capitano!» annunciò il Mozzo, indicando la scogliera
contro cui altre due bagnarole stavano per andare a sbattere.
Il mutismo
aveva colto gli altri marinai, che se ne stavano acquattati sul
pontile, intimoriti dalla rabbia dell'oceano; pareva quasi che anche
i diavoli potessero piangere.
«C'era
una volta una tempesta più scontrosa di questa, vi dico, e le onde
come denti affilati mordevano e strappavano i fianchi della Gorgo dei
Mari. Era la tempesta perfetta. Sembrava reale, vi dico, con quei due
occhi di lampo che parevano gli stessi di una tigre, ed un cuore di
tenebra celato negli abissi. Persi in quell'occasione la mia gamba
destra!» raccontò ancora assorto il Mozzo, tastando la protesi di
legno che sostituiva il suo arto; amava ricordare che si trattasse
niente meno che di un frammento del timone dell'omonima, celeberrima
nave del suo racconto.
A nessuno
importava delle sue deliranti cronache, che distoglievano
l'attenzione dal reale pericolo che minacciava di trascinarli a
fondo, con la sabbia ed i resti di chi, prima di loro, aveva avuto un
incontro ravvicinato con la scogliera che proteggeva la capitale.
«Non
tutti coloro che vagano sono perduti!» esclamò uno dei marinai.
«Ritroveremo l'abbraccio dei nostri cari; dobbiamo solo avere fede
in Dio. Non può piovere per sempre!»
«Stolto,
io ho visto cose che voi marinai da quattro soldi non potreste
neanche immaginarvi!» l'insultò il Mozzo. «In questi mari non
esiste alcun Dio! Prega l'oceano, piuttosto, affinché possa
risparmiarti la vita!» replicò il mutilato.
“Li
abbiamo quasi toccati tutti...”, sussurrò una voce fuori campo,
mentre le pagine scorrevano prive della sua attenzione. Si fermò
qualche decina più avanti: 147”
Il Mozzo
aveva lasciato cadere il suo stocco, come un ultimo raggio del sole
estivo che si addormentava sulle merlature delle porte del palazzo
reale. Il foro lasciato dal pugnale era ripieno della sua linfa
vitale, che zampillava copiosamente, sino ad allargarsi in un'ampia
macchia scura sulla sua sudicia maglia. Cadde stancamente
all'indietro, riversandosi sui barili alle sue spalle con notevole
fragore. Lucky era stato fortunato a coglierlo di sorpresa, proprio
mentre si stava sistemando la gamba di legno.
«Sapevo
sarebbe giunto questo fatidico momento... La storia, ahimè, si
ripete» disse, fra i violenti colpi di tosse, il Mozzo.
«Che
intendi dire, vecchio?» chiese il giovane, sentendo il rumore delle
corazze delle guardie avvicinarsi.
«Da
grandi poteri derivano grandi responsabilità. Ancora una volta
l'inganno ha celato la verità, ed il sangue versato appartiene ad
un'unica casata» rivelò, sputando sangue sia dalla bocca che dalla
ferita.
«Almeno
nei tuoi ultimi istanti di vita potresti essere chiaro. Le tue bugie
avranno comunque fine, ora!»
«Sei così
stupido. Lo ero anche io alla tua età. Ma capirai, e proverai a
cercare vendetta, in questa vita o nell'altra, così come ho fatto
io. È scritto nel nostro destino. Tu impedirai al figlio di Re Boran
di distruggere questo Paese!» farfugliò, riuscendo a stento a
tenere gli occhi aperti. Le guardie dovevano solo risalire l'ultima
rampa di scale prima di raggiungerli.
«Cosa
diamine vai farneticando, vecchio pazzo? Io? Uccidere il principe dei
Valar? Spezzare in base alle tue follie la salda amicizia che ci
lega? Sentiamo: perché mai dovrei farlo?»
«Per
riprenderti ciò che ti spetta di diritto... qualcosa che appartiene
alla tua famiglia da generazioni... Il trono di Westuria!» rivelò.
«Esageri,
inetto. La morte possa coglierti rapidamente, prima che i tuoi deliri
rischino turbare il Regno. Sei e rimani un vecchio mozzo che racconta
favole. Quale storia vuoi narrarmi ora, quella del tuo passato? Sei
forse un antico cavaliere?» chiese sarcasticamente, facendo
spallucce. Odiava sentirlo arrancare mentre tentava di prendersi
gioco di lui. L'aveva cresciuto sin da bambino, inoltrandolo ai
lavori di mare, ma non provava pena per la sua morte, né tanto meno
felicità. Era immeritevole delle sue emozioni.
«No, ti
racconterò la verità... Io... Io sono... Galdren di Westuria,
Capitano della Gorgo dei Mari, Erede al trono di Westuria,
discendente da Amorth, unico vero Re della Capitale!... Io... Io sono
tuo padre, Lucky!» svelò il vecchio con l'ultimo respiro che aveva
in corpo.
«L'ha
detto sul serio? Devo rileggere, forse mi sono sbagliato. No, è
proprio così... Che RIVELAZIONE!» esclamò sarcasticamente John,
lasciando cadere svogliatamente la pila di fogli ancora caldi. Si
stiracchiò e gettò un occhio sul portatile – 14.08 – l'orario
di chiusura era ancora lontano. «Morirò di questo passo. Ho bisogno
di un caffè!» borbottò.
Da
quando era stato assegnato, un po' per la sua innata rapidità di
lettura, un po' per fortuna, alla valutazione dei manoscritti, aveva
iniziato ad abusare di quella bevanda. Passava ore ed ore fra
innumerevoli e calde pagine, a spulciare manoscritti alla ricerca del
prossimo talento, imbattendosi purtroppo in tutto e di più.
L'originalità
scadeva, e sempre più erano le opere zeppe di errori grammaticali –
o meglio orrori – e sbatteva contro trame che non avevano né capo
né coda.
Lavorare
nel campo dell'editoria era sempre stato il suo sogno, ma ora che
c'era dentro non era tutto rose e fiori come aveva creduto. Scambiò
qualche svogliata parola con Andrea, la ragazza delle consegne; anche
lei sembrava essere l'ennesima aspirante scrittrice.
Qualche
settimana addietro le aveva promesso che avrebbe letto il suo
manoscritto – un giallo dalla trama strampalata – ma aveva finito
per dimenticarlo in chissà quale angolo del suo ufficio, sotto la
pila di scatoloni colmi di CD contenenti i file dei tanti aspiranti
arrivati in redazione. Riuscì a scrollarsi di dosso la ragazza
grazie ad una chiamata, ma si amareggiò per dover ingurgitare quella
bevanda fredda.
Si
chiuse nuovamente nel proprio studio. Il capo della baracca l'aveva
avvisato che nuova merce sarebbe arrivata di lì a breve, dunque
sapeva che avrebbe dovuto sbrigarsi. Gettatosi pesantemente sulla sua
poltrona, adagiati i piedi sulla scrivania e soffocato un rumoroso
sbadiglio, decise di rimettersi a lavoro. Passò rapidamente da un
manoscritto all'altro, e riga dopo riga prese a chiedersi sempre più
il perché di quella parola: “ manoscritto”, quando tutti quelli
che aveva non lo erano affatto, trattandosi in realtà di
dattiloscritti. Si scoprì profondamente immerso in quel pensiero,
mentre la pila di aspiranti scartati cresceva in un angolo della
stanza, diventando carta da rifiuti.
Eppure,
dopo aver passato in rassegna il grosso del lavoro, limitandosi a
leggere l'inizio, il centro e la fine dell'opera, si sentì
richiamare dalla curiosità. Lanciò l'ultimo plico di fogli nel
cestino e frugò sulla sua disordinata scrivania: c'era di tutto,
dalle caramelle al gusto di fragola, alle banconote con gli inviti
dei testimoni di Geova; dai bicchieri di caffè impilati come una
torre, ai fogli con i pochi appunti presi. Infine, facendo cadere a
terra la maggior parte delle carte, trovò ciò che stava cercando:
“Il racconto del Mozzo di Westuria, di Dante Manzoni”.
«Neanche
il nome riesce ad essere originale... però, questo spiega molte
cose» commentò ridacchiando, mentre riprendeva a sfogliarlo.
Confessò a se stesso che quel ragazzo, nonostante il suo giudizio,
era riuscito nell'intento ricercato da tutti gli scrittori: suscitare
curiosità nel lettore. Non che John trovasse quella storia
particolarmente interessante, ma era così tanto bizzarra e surreale,
che ora voleva sapere come andava a finire. Si chiedeva dove sarebbe
andato a parare l'autore in vista del finale. Con un sorriso aprì le
ultime due pagine:
Il
principe teneva stretta a sé Rous, minacciando la sua gola con un
coltello. Nonostante tutte le malefatte che Lucky aveva scoperto sul
conto del fittizio erede al trono, faticava ancora a distinguere
quella bestia, che ora minacciava la sua donna, dall'amico che gli
era stato accanto sin dall'infanzia. Avrebbe voluto agire, ma non
intendeva di certo mettere a repentaglio la vita di Rous.
«Come i
nostri antenati prima di noi, Lucky! Credi di poter realmente
cambiare il corso della storia? La donna porta in grembo tuo figlio.
Ti farò un'offerta che non puoi rifiutare, scegli: loro muoiono, e
tu puoi avere la tua vendetta; oppure lascio andare la ragazza, e tu
ti getti dalla scogliera!» disse Doraldo, facendo pressione sul
collo dell'amata dell'erede.
«Non mi
lasciare, John!» disse la donna.
«Ti fidi
di me, Rous? Questa faccenda non deve finire per forza in questo
modo» disse, cercando di mostrarsi inoffensivo. «Possiamo cambiare
le cose, amico mio. Non nutro rancore nei tuoi confronti, nonostante
le tue azioni. Tu non sei come tuo padre. Possiamo regnare insieme,
come un tempo sognavamo di avere il mondo sotto il nostro controllo»
tentò d'invitarlo alla ragione.
«Tu non
puoi passare sul mio diritto al potere! Non spartirò la mia
sovranità con te, sciocco! Fuggi, e avrai salva la vita!»
«Ho
vendicato la morte di mio padre. Perché vuoi costringermi a
prendermi anche la tua vita?» chiese Lucky.
Doraldo
abbassò l'arma, quasi stupito da quelle parole, o più per la
sorpresa dell'essere tanto sottovalutato come duellante. Puntò il
coltello verso la scogliera: «Gettati di sotto! Ora!» intimò. Fu
proprio in quel momento che Rous approfittò della sua disattenzione
per pestargli un piede con il tallone, quindi gli indirizzò una
violenta testata sul naso. Scappò, ormai libera dalla presa
dell'uomo, verso il tempio. Doraldo le andò dietro su tutte le
furie.
Lucky lo
intercettò rapidamente, placcandolo rovinosamente. Rotolarono sino
ai piedi del tempio, confrontandosi senza esclusione di colpi,
riducendo i loro volti a sanguinacci deformi. Poi, quando Doraldo
pareva avere avuto la meglio su di lui, l'erede afferrò un piccolo
braciere, e lo spaccò sul volto dell'avversario. Lo ustionò
gravemente in più punti, e quello prese ad indietreggiare fra le
urla di dolore: il suo viso era stato sfregiato irrimediabilmente.
«Cosa mi
hai fatto, bestia?!» esclamò in lacrime.
«Questo è
poco, in confronto a ciò che meriteresti!» ruggì Lucky mentre lo
incalzava, calciandolo sino al bordo della scogliera. Il suo nemico
tremava di paura.
«Risparmiami.
Ti chiedo perdono, amico mio!»
«Secondo
le leggi della Capitale, meriteresti la morte per impiccagione. Sei
un traditore! Hai tradito la mia amicizia e la mia fiducia. Darò al
popolo ciò che vuole!» sentenziò.
«Tu sei
un folle! Questa è pazzia!» esclamò rialzandosi, provando a
pugnalare Lucky con uno spillo nascosto nel vestito. Il futuro Re
riuscì a bloccargli le braccia:
«Pazzia....
Questa è Westuria!» esclamò sferrandogli un calcio al centro del
petto, gettandolo giù dalla scogliera.
Lucky lo
guardò cadere in mare, e lo vide evitare d'un soffio gli scogli.
Teneva stretta a sé Rous, quando scorse il suo rivale spuntare fra
la schiuma delle onde.
«Non è
ancora finita. Tornerà in cerca di vendetta... ne rimarrà soltanto
uno»
L'uomo
chiuse il manoscritto, fece un'intermittente sorriso, quindi esclamò:
«Ma no?! Che colpo di scena!» nel mentre in cui scagliava il
mucchio di carte contro il cestino, facendo un rumoroso canestro,
tanto da capovolgerlo. Si lasciò nuovamente andare sulla sedia,
passandosi le mani fra i capelli. Ancora era incerto se quanto avesse
letto fosse solo uno scherzo, oppure un reale tentativo di
“scrivere”.
Ripensò
intensamente a tutto ciò che aveva letto in quel giorno, mettendo
insieme i frammenti di storie che avevano del surreale. Era fiero di
sé: aveva appena svolto appieno il suo lavoro, analizzando anche
quell'ultima parte del romanzo – se così poteva definirsi –
completando in tal modo la sua lettura. In quel momento fece
irruzione nella stanza la ragazza delle consegne, gettando con poco
garbo un altro ammasso di manoscritti sulla sua scrivania.
«Allora:
che ne dici?» chiese con un sorriso enorme.
John
temporeggiò con imbarazzati risolini, cercando con lo sguardo
proprio il suo manoscritto, ma con tutto quel caos era
particolarmente difficile riuscire nell'impresa. Poi, con un cenno
d'assenso, parlò: «Inizio quasi forzato, troppo calcato, ma l'idea
di fondo sembra buona. È ancora troppo presto per dare un giudizio.
Stavo giusto sfogliando qualche altra pagina» mentì spudoratamente,
giocherellando con le mani. Confessò a sé stesso che, se Andrea
fosse stata una ragazza più affascinante, con una bella quarta di
reggiseno, forse la sua opera l'avrebbe presa realmente in consegna,
almeno per avere qualche speranza con lei. Ovviamente non era il caso
della donna, che non era neanche lontanamente vicina al suo tipo.
«Che
bello! Voglio un parere sincero. Se non ti piace, dillo!» disse
tutta contenta, con l'espressione di gioia che solitamente sanno
esibire i bambini. Sarebbe stato difficile eludere le sue future
domande.
«Certo.
Lo sai che su queste cose non mento: è il mio lavoro!» sottolineò
con professionalità.
Proprio
in quel momento gli sorse un dubbio, come se qualche manoscritto
ambiguo fosse passato per le sue mani, e avesse fatto la fine degli
altri.
«Vedo
che sei impegnato. Ti lascio alle tue letture. Grazie mille» disse
Andrea prima di abbandonare la stanza.
John
tirò un sospiro di sollievo: l'aveva scampata. Quasi colto da uno
strano senso di colpevolezza, l'uomo frugò fra i suoi vecchi
grattacieli di carta, sino a trovare quello che cercava. Si fece
spazio sulla scrivania e, così come per tutte le proposte
editoriali, si mise a leggere.
La
ragazza aveva una scrittura fluida, sebbene di tanto in tanto
facessero la loro comparsa alcuni errori – e chi poteva esserne
esime, pur con la correzione di un buon bozzista? – Passò oltre
senza ostacoli, per quanto la trama del suddetto mancasse della
giusta spinta per incuriosirlo. Non fece trattamenti di favore; come
al solito saltò alle pagine centrali. La trama prendeva una piega
incomprensibile, differentemente dagli altri libri, dove gli bastava
leggere qualche pagina per ricollegarsi alla narrazione principale.
Saltò alle ultime senza troppa attenzione, sorridendo amaramente:
L'uomo
sfogliò pigramente il tomo, annoiato dall'ennesimo racconto in cui
non si rispecchiava alcun suo interesse. Amava leggere, ma per quel
lavoro era pagato per sfogliare e scartare, come se quella sorta di
tecnica aiutasse a trovare dei veri talenti. Era un lettore
imprigionato all'interno del suo stesso corpo, che alla fine si era
convinto di star facendo ciò che amava. Criticava ogni manoscritto,
indipendentemente da chi l'avesse composto, o dal suo reale
contenuto. Come potevano poche righe raccontare un mondo? Per lui
avevano assunto la prassi, la crudele legge non scritta
dell'editoria. Serve vendere, non trasmettere.
L'uomo
richiuse il tomo annoiato, consapevole d'essersi imbattuto
nell'ennesimo mancato scrittore. Nessuno avrebbe mai saputo cosa
passava nella sua testa, mentre si defilava fra una storiella e
l'altra. Iniziò l'ennesima critica... altre pagine sfogliate... un
altro finale frivolo ed insignificante.
Dubito
seriamente che tu sia arrivato a questa pagina leggendo le restanti.
Non ti dirò che hai perso qualcosa, ma che forse ti sei perso. Il
mio romanzo non sarà sugli scaffali come il nuovo Best Seller, e
forse sarai l'unico ad aver sfogliato queste pagine; rimarrai l'unico
che lo farà. Sarò frivola nel dirlo: tutte le storie hanno qualcosa
da raccontare, ed è un peccato che solo poche abbiano l'occasione di
essere valutate seriamente. Ci saranno perle che nessuno scoprirà,
autori originali che il mondo non conoscerà; e per l'editoria niente
cambierà. Inizio, centro e fine.
John
chiuse il manoscritto con un sospiro: si era rivisto in quella
descrizione. Brutalmente rivisto. Lasciò cadere un occhio sulla
prima pagina di copertina: “ Inizio, centro e fine” Tutto ora
aveva un senso. Scoprì che solo un centinaio di pagine erano
scritte, mentre le restanti ottanta erano semplicemente delle
repliche dell'ultima che aveva letto. Era riuscita ad ingannarlo, ed
ora si sentiva uno stupido ad averle risposto in quel modo. Era stato
colpito nel profondo, e riteneva veritieri quei giudizi circa il suo
modo di lavorare. Aveva smarrito qualcosa sul serio; riuscì a
ricordarlo pochi attimi dopo: quello che gli mancava era la passione
per la lettura, la capacità d'immedesimarsi in ogni realtà
possibile. Aveva smarrito il motivo del suo ingresso nell'editoria.
Sorrise
amaramente. Poi, frugando fra i nuovi manoscritti, s'imbattè in uno
particolarmente voluminoso. Era scritto in piccolo, ed il nome
dell'autore, o meglio i due, erano italiani. Si convinse di dare una
possibilità al suggerimento nascosto fra le pagine scritte da
Andrea. Fece scorrere gli occhi sul titolo, quindi aprì il
manoscritto leggendo ad alta voce:
«Le
ombre del Destino: Il Cavaliere dagli occhi purpurei...»
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