L'Erede di Eracle
di G.G. Pintore
illustrazione a cura di Costantino Nieddu
Questo racconto è stato ispirato proprio dall'illustrazione di Costantino Nieddu. Leonida è un personaggio che mi è sempre piaciuto, ma l'ispirazione aggiuntiva per portare a termine questo racconto è stata data dalla celebre Graphic Novel "300" di Frank Miller, dall'omonimo film e dal romanzo di Andrea Frediani "300 GUERRIERI".
Con questa storia non voglio narrare la solita vicenda di Leonida ed i suoi spartani, ma una versione differente della storia, probabilmente inadeguata alle reali vicende. Semplicemente una leggenda, così come i veri eroi erano descritti nella mitologia.
G. G. Pintore
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Giovanni
Giuseppe Pintore
L'erede
di Eracle
I baldanzosi
fuochi si agitavano spavaldi in cima allo stretto passaggio,
proiettando le enormi sagome degli spartani ai piedi della breccia,
quasi fossero giganti. Era usanza dei Greci usufruire di quello
stratagemma per intimorire i nemici: le ombre rappresentavano
l'immensità della loro cultura, oltre ad essere capaci di far
tremare i soldati persiani, che con tanta scelleratezza avevano
assecondato il volere di re Serse, spingendosi prematuramente nei
pressi della Bocca dell'Ade – così l'aveva definita
Agamestre – poiché gli spartani avevano provveduto a gettare fra
le sue fauci un elevato numero dei loro nemici.
I focolai
erano accesi giorno e notte, a simboleggiare la speranza che
divampava e la forza del popolo greco, che per nessuna ragione al
mondo avrebbe ceduto all'avanzata del tiranno. Il vino scorreva a
fiumi fra gli opliti, finendo per fondersi col sangue dei molti
persiani trapassati dagli aculei dalla falange, abbandonati in una
palude di cadaveri, formatasi in quei giorni di estenuante – almeno
per gli aggressori – contesa.
I
pentecontarchi avevano dato chiare disposizioni: i cadaveri avversari
sarebbero dovuti essere ammassati ad un centinaio di metri
dall'ingresso delle Termopili, affinché i persiani fossero costretti
a stanziarvi prima e durante lo scontro, così da abbattere il loro
morale ed intossicarli con i miasmi di morte, che invadevano come
cenere le vie respiratorie. Una moltitudine di fuochi fatui aleggiava
fra i brandelli di carni esotiche, lasciate essiccare sotto il sole
cocente.
«Ve lo dico
io, Eguali: i persiani cadranno presto sotto la terribile marcia
della nostra falange!», profetizzò Agamestre, sollevando in alto il
proprio elmo piumato, grondante di linfa nemica. I suoi occhi castani
si perdevano oltre il muro di scudi dorati, sulle armature
multicolore delle truppe orientali. «Guardateli, quei figli di una
cagna, si sottraggono ad una morte gloriosa... unicamente per
abbracciarne una voluta dal loro stesso padrone. Hanno mancato la
gloria in vita, ed hanno perso l'occasione di scambiarla al prezzo
della morte!», annunciò con tono di condanna.
«Rammentatelo
spartiati, quando li avrete nuovamente davanti sul campo di
battaglia. Questo è ciò che differenzia noi Greci dalla feccia
persiana: siamo uomini liberi, guerrieri, figli prediletti nella
culla della civiltà ellenica, che affrontano degli schiavi
soggiogati dal tiranno che ha depredato l'oriente. Saranno pure nati
nella terra dove sorge il sole, ma hanno scordato di essere giunti
ove tramonta, e loro tramonteranno con esso!», proclamò
risolutamente Leonida, posto a capo della falange. La sua panoplia1
dorata pareva costituita dagli stessi raggi di Apollo, mentre il
tribone2
scarlatto era gonfio dello sbuffo di Eolo, facendolo apparire ancor
più imponente di quanto già non fosse.
Gli sguardi
degli opliti ne furono inesorabilmente rapiti. Risposero con un
assordante boato, tale che sarebbe stato in grado di far tremare lo
stesso Atlante.
Era il terzo
giorno che i greci conquistavano sul campo, accusando solo quattro
perdite, a discapito degli innumerevoli decessi nello schieramento
opposto, parte del quale ora giaceva ad un centinaio di metri dalla
via di accesso alle Termopili. Quella ripugnante palude esalava
costantemente un fetore di morte tanto ripugnante da risultare quasi
velenoso per chiunque lo respirasse, anche inavvertitamente.
Agamestre,
con il quale Leonida aveva condiviso ogni sorta d'avventura
nell'agogé1
e in quei trenta lunghi anni di fratellanza, aveva l'incarico di
radunare sempre più corpi in quel malsano luogo, nonostante egli
stesso avesse messo in guardia il suo re sui pericoli che tale
comando avrebbe potuto comportare anche per il resto dei greci. Aveva
ottenuto una risposta degna del sovrano che serviva, ed aveva taciuto
quelle sue parole, fiero di poter condividere tale fardello con
l'uomo che lo conosceva meglio della donna che l'aveva partorito.
Si
raccontavano già numerose storie su quella palude di cadaveri, e le
sentinelle narravano di voci nelle tenebre, di luci che si tuffavano
nei mari e che ne riemergevano con le forme più disparate. Agamestre
aveva incentivato quelle stesse leggende, alludendo che si trattasse
di Ade stesso, giunto a prendersi le anime di coloro che avevano
ripudiato la sua legge: raccontava che gli Dei fossero al loro
fianco, per proteggerli dalla terribile minaccia che incombeva.
«Mio Re, ti
mandano a chiamare», acclamò uno spartiata, tenendosi a dovuta
distanza dal sovrano, che dalla cima dell'altura scrutava il campo di
battaglia, oltre che i suoi confratelli atti ad esibirsi nei consueti
esercizi ginnici alle porte delle Termopili, finalizzati ad
intimorire l'avanzata nemica.
«Non ho
udito o scorto Serse avvicinarsi: cosa rende la mia presenza
indispensabile?», domandò senza voltarsi. Qualcosa nella sinistra
foschia che avvolgeva la palude lo aveva incuriosito, ma non era
riuscito a capacitarsi di quanto aveva appena notato.
«Una
donna...», rispose irrigidito il guerriero.
«Lasciala
passare».
«Una
vittoria magistrale, Re Leonida. A lungo il mondo canterà di come un
pugno di spartani abbia tenuto testa ad un esercito che vanta d'aver
messo in ginocchio tutto l'oriente», esordì una voce seducente. La
veste turchina che indossava era avvinghiata come una seconda pelle
al suo corpo, mettendo in risalto le sue sinuose forme. I lunghi
capelli neri si mostravano raccolti in una treccia che ciondolava fra
i due seni, mentre i suoi intensi occhi verdi lasciavano trapelare un
fascino raro ed ignoto. Aveva un portamento aristocratico, nascosto
sotto una genuina bellezza che avrebbe fatto impallidire Afrodite
stessa.
«Un pugno è
più che sufficiente quando occorre sostenere uno scudo; un secondo è
impersonato dalla Grecia stessa, che affonderà la spada nel cuore di
Serse! Non si parla solo di spartani, ma dell'intero popolo ellenico.
E la vittoria? È ancora presto per definirla tale, nel momento in
cui la bestia, ferita, si è ritirata nella sua tana per leccarsi le
ferite. Tornerà in cerca di vendetta, più furente che mai... e solo
allora sarà decretata la sorte di questa guerra: o la vittoria, o la
disfatta!», rispose compostamente. Ogni suo termine era
accuratamente ponderato, e la donna parve intuire ed apprezzare la
costruttiva obiettività del sovrano.
«Fiero di
guidare lo scontro, ma con i piedi ben saldi a terra. È una dote
rara per chi si trova a capo di uomini tanto coraggiosi. Il degno
erede di Eracle, dopotutto: è questo il dono che rende un semplice
uomo una leggenda?», chiese lei con fare lusinghiero, consumando la
distanza che li divideva con ammalianti passi felini.
«Icaro ci ha
insegnato a caro prezzo che gli uomini sono stati fatti per
camminare, non per volare. Altrimenti saremmo tutti a spasso per i
cieli, beffandoci di Atlante. Ermes perderebbe il suo lavoro come
messaggero degli Dei. Sono lo scudo che protegge il mio fianco, e
l'oplita che preme contro la mia schiena, che permettono alla mia
spada di aprirmi un varco fra i nemici: sono loro a rendermi parte
dell'immensa leggenda che è la mia terra, la Grecia», le rivelò
orgoglioso.
«Un semplice
uomo... oppure un araldo della patria? Mi domando se, pur nell'ora
ove lo scudo è lasciato a riposo, e la spada funge da unico mezzo
per aprirsi una breccia nella culla della vita, siate tanto devoto
alla vostra sposa... almeno ad una delle due», commentò divertita,
offrendogli la visione della sua nuda schiena. Quelle parole
riportarono alla mente del re il profumo di Gorgo, ed il ricordo
dell'ultima notte in cui aveva visto i loro corpi fondersi in uno
solo.
«Temo non
avrai il privilegio di saziare certe curiosità, donna», tagliò
corto Leonida. «Basta giochetti: chi sei, e per quale motivo hai
voluto incontrarmi?», domandò, inflessibile nella sua statuaria
posa da guerriero.
«Sono qui
per offrirti la possibilità di porre fine a questa guerra, di modo
che possa favorire il tuo popolo. Serse si avvicina, ma non è di lui
che hai timore, spartano. Phobos accompagna il tuo sonno,
strappandolo al riposo che un valoroso guerriero meriterebbe»,
sibilò accostandosi al suo orecchio, osservando la palude in
lontananza.
«I Persiani
utilizzeranno qualsiasi stratagemma per vincere questa guerra ma,
finché terremo la posizione, non avranno possibilità alcuna di
passare. Noi non siamo che la punta della falange, presto i nostri
fratelli ci raggiungeranno, ed allora Serse si preoccuperà realmente
del nostro numero: la paura afferrerà i cuori dei suoi schiavi. La
tua bocca aveva intenzione di espellere dei consigli in merito, oltre
a tali ovvietà?», chiese stancamente, annoiato dalla conversazione.
Quella donna non appariva come le altre, ed un sinistro sospetto
prese a crescere dentro il sovrano.
«Sarebbe
inutile, spartano. Per oggi mi limiterò a presagire quanto avverrà:
domani sarai tu, Re Leonida, a venirmi a cercare in questo luogo. Se
tieni ai tuoi soldati, presterai ascolto a quanto avrò da dire,
erede di Eracle. Dì ai tuoi uomini di spendere saggiamente le ore
prima della battaglia: potrebbe essere l'ultima che affronteranno al
tuo fianco», profetizzò con tono gelido, tanto che un brivido corse
lungo la schiena del sovrano di Lacedemone.
«Potrebbe
quasi intendersi come una minaccia», aggiunse il guerriero. «Credo
il tuo nome si sia perso nei presagi di morte, donna».
«I Mali mi
chiamano Efialte», si annunciò simulando un elegante inchino, prima
di diradarsi come nebbia lungo il sentiero solitario che conduceva
all'altura.
Leonida
avrebbe riposato poco quella notte, tormentato dalle parole di
quell'avvenente e minacciosa figura. Poi, la compagnia di Gorgo e le
sue forme, condotte da Morfeo in sogno, lo strapparono ai vaneggi
notturni.
«Mi chiedo
se Serse abbia l'intenzione di farci morire per la noia!», esclamò
Agamestre, mentre estraeva la lancia dalla gola dell'ennesimo
persiano, piantandogli lo stirax1
nel cuore. Il re era al suo fianco, più silenzioso del solito: si
limitava ad impartire gli ordini e ad osservare oltre il campo di
battaglia, ove la foschia si era fatta più cupa; gli stessi soldati
avversari parevano fuoriuscire da un baratro che ricordava i racconti
sull'oltretomba. Non era certo che Ade avesse fatto suo quel luogo,
ma qualcosa di oscuro si era realmente annidato nella palude, ed il
sovrano percepiva il suo nefasto potere diffondersi per le Termopili.
«Che intendi
dire?», gli chiese l'oplita che lo fiancheggiava, respingendo un
persiano proprio davanti all'omone, che lo finì con un colpo col lo
scudo portato di taglio.
«Questi
omuncoli sarebbero in grado di trafiggersi da soli, se anche stessimo
fermi. A quale gioco sta giocando quel pervertito di un persiano?!»,
esclamò nuovamente, mentre con tutta la sua stazza infrangeva la
falange, menando lo scudo sugli avversari con una facilità
disarmante.
Causò
ingenti danni nel disordinato schieramento avversario, scagliando per
aria i suoi bersagli con tutta la foga di cui disponeva. La sua
lancia trafiggeva le carni di due soldati per ogni affondo, mentre la
protezione ne ribaltava il doppio con una mezza spazzata. Rientrò
nella falange solo dopo esser stato inseguito dai compagni, che
avevano incalzato a ranghi serrati coloro che li dividevano
dall'omone.
Poi, dalla
tenebra profonda, presero ad incedere figure bardate in nere vesti,
con maschere d'argento a celare i loro volti, tanto che essi
apparivano la copia di un solo guerriero. Erano una trentina.
Brandivano scimitarre insanguinate, benché nessuno dei greci li
avesse mai scorti sul campo di battaglia, ed uno scudo di forma
ellissoide allungato verticalmente, segnato da evidenti ammaccature.
Il loro lento incedere li fece tardamente congiungere agli alleati,
sebbene le loro lame affondassero sulle schiene di chi li anticipava
nella contesa. I greci si ritrovarono a combattere contro una fila di
avversari ed una di fuggitivi, che preferivano gettarsi sulle lance
della falange, piuttosto che venir macellati da quei temibili
guerrieri in nere vesti. I persiani combattevano contro loro stessi,
forse per instillare la paura nei cuori degli opliti; ma Leonida li
richiamò all'ordine, facendo arretrare di pochi passi la prima fila,
così da far subentrare la seconda, decisamente più riposata e
pronta all'azione.
L'impatto fra
le nuove fazioni non tardò ad arrivare. Gli spartani serrarono i
ranghi, lasciando che le spade nemiche s'infrangessero contro il muro
greco, quindi le file arretrate di opliti esercitarono tutta la loro
forza contro le avanzate, e la prima respinse con semplicità
l'assalto, mandando a segno le proprie lance, respingendo
all'indietro e facendo cadere molti degli assalitori.
Trascorsero
parecchi incroci di lame prima che Leonida fosse in grado di
accorgersi che, nonostante fossero stati trafitti e calpestati, una
volta finiti a terra i componenti delle file abbattute si erano
integrati nuovamente all'esercito assalitore, benché sulle loro
corazze fossero evidenti i fori mortali delle lance.
Il numero dei
greci precipitò sotto l'offensiva di quei guerrieri fatti di
tenebra, tanto che ricomporre la falange divenne arduo senza perdere
qualche metro, costringendoli così abbandonare i compagni feriti in
balia della furia persiana.
Nonostante
l'ordine appena impartito, Leonida ed Agamestre ne approfittarono per
abbandonare la lancia sul petto di un nemico ed estrarre la spada,
facendosi scudo a vicenda.
Erano
trascorsi anni dall'ultima volta in cui il re aveva abbandonato lo
schieramento in quel modo, mettendo totalmente a repentaglio la sua
vita, ma il suo particolare stile non era stato affatto dimenticato
e, dopo i primi due soldati abbattuti, ritrovò l'armonia combattiva
che l'aveva da sempre contraddistinto. Si scagliò su alcuni dei
nuovi arrivati, constatando che nessuno dei comuni punti vitali umani
pareva piegare la loro statuaria posa. Il loro coraggio incentivò la
falange a raggiungerli con rinnovata energia.
Poi, graziato
dal bacio di Tiche, lo scudo di Leonida impattò violentemente sulla
maschera di uno di essi, mandandola in frantumi. Ciò che il re di
Lacedemone vide al di sotto di essa gli fece gelare il sangue nelle
vene, anche se questo non gli impedì in alcun modo di affondare la
spada fra i suoi rossi occhi: la pelle di quegli uomini appariva
violacea, cadente e macilenta. Le labbra erano bianche e spaccate in
più punti; una “S” marcava le loro fronti, privando i loro
sguardi di espressività, come se il soffio della vita avesse
anzitempo abbandonato i loro corpi.
Fu in quel
preciso momento, mentre estraeva la lama dalla fronte di
quell'essere, che comprese d'essere stato l'unico ad aver posto fine
alla vita di una di quelle immonde creature in un solo colpo. Scorse
Agamestre continuare ad infierire senza pietà sul persiano: due
lance spuntavano dal suo ventre, ed il bastone di una terza gli
trapassava il petto all'altezza del cuore; eppure quello continuava a
dimenarsi ed a lottare, finché l'omone non riuscì a staccargli la
testa con le proprie mani, per scagliarla poi contro il soldato più
vicino.
Al termine di
quella giornata i caduti spartani erano stati ventiquattro, sei volte
tanto le vittime dei giorni precedenti.
Fra i greci
cominciò a spargersi la voce, e quelle creature in vesti nere
vennero identificate col nome di Immortali. La paura stava crescendo
nel cuore del popolo ellenico, e Leonida, turbato da quanto aveva
scorto, si recò sull'altura dove aveva incontrato Efialte la notte
precedente.
Lei lo stava
attendendo, con la nuda schiena volta a farsi baciare dalle labbra di
Eolo.
«Come potevi
conoscere l'esito di questa battaglia? Chi sei?», chiese il re. Il
suo tono era aggravato dalla rapida salita e dall'estenuante
battaglia. Il sangue aveva spento la lucentezza della sua corazza, ed
appesantito il suo mantello.
«Efialte»,
rispose la donna con un ghigno beffardo. «Un Oracolo mi ha parlato
per mezzo degli Dei», aggiunse facendo spallucce.
«Impossibile!»,
esclamò il sovrano in un impeto d'ira. «Il loro Oracolo ha già
parlato riguardo l'esito di questa guerra, a Sparta!».
«Ti sbagli,
Leonida», l'ammonì Efialte avvicinandosi sinuosamente, spostando
sull'altro lato la lunga treccia. «Hanno svelato il tuo destino, non
ciò che concerne i tuoi compagni ed il tuo popolo. La Grecia cadrà
per mano degli Immortali, e tu, Re di Lacedemone, ad ora non hai il
potere di fermarli», gli rivelò.
«Questo non
accadrà!», ruggì afferrandola per la veste, con tale forza da
privarla della copertura di un seno, che generosamente sgusciò fuori
dall'abito in tutta la sua radiosa abbondanza. «Cosa sai sugli
Immortali?! Come conosci tutto ciò?!», la incalzò impetuosamente.
«Strattonami
pure quanto desideri, erede di Eracle: conosco i tuoi appetiti, e
sono consapevole che Gorgo sia lungi dal poterli saziare, a causa
della sua assenza. Sono qui per servirti, qualsiasi sia l'aiuto che
questo corpo o queste labbra possano donarti», sussurrò
maliziosamente al suo orecchio, mordendolo, ora che gli stava vicino,
avvinghiando il braccio destro attorno al suo collo ed immergendo la
sua mano nei lunghi capelli del re di Sparta.
«Che le tue
labbra possano dunque riempirsi per il mio piacere – di parole –
per soddisfare i bisogni che tormentano questo uomo. Rivelami ciò
che sai, poiché è la tua conoscenza a renderti affascinante ai miei
occhi, non il tuo corpo», rivelò Leonida, allontanandola a fatica
dal suo petto.
«Capisco»,
sibilò con una risatina. «Per quanto tu possa trovarlo assurdo, Re
di Sparta, uno degli Dei è più vicino di quanto tu possa
aspettarti. Esiste un sentiero nascosto che nessuno conosce, eccetto
me, che attraversa le Termopili. L'entità che tu vai cercando si
trova a poche ore di cammino. È una ripida colonna rocciosa, ed egli
dimora all'interno di una grotta posta in cima alla stessa. Raggiungi
l'Oracolo... ma porta con te un pegno», gli rivelò.
«Mi
aspettavo concrete spiegazioni da parte tua, non una caccia al
tesoro. Forse è Giasone colui a cui avresti dovuto rivolgere certe
attenzioni», rispose innervosito.
«Allora sii
come Giasone... Troverai il tuo Vello d'Oro. Fidati della mia parola.
È l'unica speranza, se hai intenzione di vincere questa guerra... o
perlomeno di ritardare l'avanzata di Serse», proseguì Efialte con
il suo consueto ghigno irrisorio.
Leonida
storse il naso, poi protese il braccio davanti a sé, invitandola a
fargli strada verso il sentiero nascosto, ma solo dopo essersi
assicurato che nessuno li avesse visti. Non ebbe bisogno di lasciare
alcuna comunicazione ai suoi, nonostante la sua assenza avrebbe
potuto farsi sentire. Agamestre era già stato informato della sua
momentanea dipartita, ma anche del fatto che sarebbe stato di ritorno
al più presto: sino a quel momento egli avrebbe dovuto coprire il
suo allontanamento.
«Immagino di
non avere molta scelta, ma parecchie saranno quelle che ti vedranno
coinvolta, se quanto mi stai rivelando dovesse dimostrarsi falso! Che
gli Dei possano vegliare su di te, oppure maledirti per le tue
menzogne!», le disse una volta percorso un tratto del segreto
passaggio. «Zeus mi è testimone in questa mia promessa!»,
concluse.
La donna non
rispose, celandosi dietro un sorriso enigmatico. Il re si avviò per
quel buio sentiero, privo di luci e di punti di riferimento, se non
per la radiosità della luna che si rifletteva sul suo possente
scudo, mentre sfruttava lo stirax della lancia per assicurarsi che il
terreno non venisse a mancare lungo il cammino. Aveva però lasciato
indietro la propria corazza, troppo pesante per affrontare un simile
viaggio. Lo scarlatto tribone era l'unico abito che copriva il suo
possente fisico, che non si era piegato al peso degli anni,
mantenendosi tonico e scattante come in gioventù.
Quella via
era stretta, pericolante e faticosa da percorrere, e sicuramente un
esercito avrebbe rallentato ulteriormente per oltrepassarla, ma non
un ristretto quantitativo di soldati. Si chiese ove andasse a
concludersi quel sentiero, che nessuno, eccetto Efialte, aveva detto
di conoscere. Fece alla svelta, allungando il passo, sinché si
palesò ai suoi occhi la colonna rocciosa, che si ergeva quasi sin a
toccare la luna.
Abbandonò a
malincuore la lancia e lo scudo, quindi si fece forza per scalare la
parete. Non vi erano radici o rientranze nella roccia, e ciò rendeva
la salita ancora più ardua. Focalizzò attentamente ogni passaggio,
poiché era consapevole che al ritorno avrebbe dovuto ripercorrere
quei movimenti a ritroso, mettendo a repentaglio la sua stessa vita.
Il vento sferzava gelido sul suo mantello, quasi Eolo volesse tirarlo
giù per impedirgli di cambiare il suo destino, ma le sue mani si
avvinghiarono alla nuda roccia con rabbia, mentre sforzava le gambe
per darsi lo slancio sufficiente per raggiungere una zona più
elevata.
Infine, dopo
una lunga ora di arrampicata, nel mentre che la luna stava
concludendo il suo arco nel cielo, si ritrovò sulla vetta della
colonna. Una stretta grotta si apriva nella pietra, illuminata da una
piccola fiaccola celata all'interno della stessa.
«Ti stavo
aspettando...», bisbigliò una tetra voce, e quel tono bieco crebbe
come il vento che ruggiva dal foro in sua direzione, rallentandone
l'avanzata.
Leonida aveva
smesso di essere cauto dal momento in cui era giunto nei pressi di
quella colonna, e lungo la salita aveva recuperato un frammento di
roccia appuntito, che ora nascondeva nel suo pugno destro. Il
cunicolo conduceva ad una sala circolare, priva di tetto e con un
grosso foro sul terreno. Non vi erano simboli, né tanto meno fonti
d'illuminazione al di là delle stelle nel cielo. Una sinistra figura
se ne stava in piedi, ad un passo dal baratro. Nessun dettaglio del
suo corpo era visibile.
«Elios sta
per sorgere: il tempo a mia disposizione è poco. Sono qui per
chiedere il tuo aiuto», esordì rigidamente.
«Sei
l'ultimo erede di Eracle in vita, Leonida: quale dono hai portato per
questo oracolo?», rispose una stridula voce maschile.
«L'eredità
che porto con me non è sufficiente?», azzardò facendo un passo in
avanti. «Rivelami ciò che ti hanno sussurrato gli Dei: è una
grande occasione per te».
«Tu morirai,
Leonida. Indipendentemente da ciò che mi stai offrendo», lo gelò.
«Sospetto la
tua immensa saggezza darà ora vita ad un “ma”. Parla, e fallo
alla svelta».
«Vedo che
sei deciso ad andare sino in fondo... Me ne compiaccio. Ti dirò ciò
per cui sei venuto... Ma.... prima ho bisogno che tu vesta il mio
marchio».
«Sono un
uomo che onora la parola data: non posso dire lo stesso di una
creatura come te. Stai continuando a perdere tempo, e perseveri nel
celare alle mie conoscenze il nome del Dio che servi», lo incalzò
il re.
«Dio? Il suo
nome è Lachesi. Ella dovrebbe esserti nota, almeno per ciò che sei
sempre stato. Questo è quanto mi ha rivelato sul tuo conto... Solo
tu puoi uccidere gli Immortali, e non perché il sangue di Eracle
scorre nelle tue vene, o meglio, non esattamente. È la lama che
brandisci a renderti efficace in battaglia: la sua elsa è stata
ricavata dal legno della clava di Eracle. Gli Dei vegliano sulla
vostra causa, ma nelle condizioni attuali sarete come una stella
cadente: arderete d'immenso coraggio, ma irrimediabilmente sfumerete
dopo una breve comparsa nel cielo. E gli Dei seguiranno la vostra
stessa sorte, se non interverranno per impedire che il Tiranno si
prenda la Grecia», rivelò l'essere.
«Come posso
lottare contro gli Immortali, da solo?», chiese scuotendo il capo
con dissenso.
«Non puoi.
Ma forse esiste un modo: esso, però, potrebbe ucciderti prima del
tempo».
«Gli Dei
hanno già predetto la mia caduta in questa battaglia. La mia sorte è
decisa, e pare che non abbia alcuna possibilità di sottrarmi a
questo destino. Dimmi cosa posso fare per salvare il mio popolo, o
per donargli ancora una speranza».
«Fatti
vicino, Leonida, Re di Lacedemone. Sarai il primo, forse, che
riuscirà a sottrarsi al proprio fato...», si limitò a commentare
l'entità.
Era l'alba.
Leonida si trovava finalmente ai piedi della colonna rocciosa, ed il
suo passo si affrettava verso la via di casa. L'oracolo non aveva
speso molte parole, ma gli aveva consegnato un otre di pelle che gli
avrebbe consentito di ribaltare le sorti di quella guerra. Il
sentiero segreto era differente da quanto ricordava, e presto
giunsero alla sua attenzione le inconfondibili tracce del passaggio
di un ristretto manipolo di uomini. Era impossibile che Agamestre
avesse scoperto il percorso, e ciò lasciava adito ad una sola
spiegazione: anche i persiani avevano scoperto quella via che
attraversava le Termopili.
Legò l'otre
alla sua cintura, quindi avvolse il suo busto col mantello per
facilitarsi i movimenti, dunque scattò con scudo e lancia alla mano.
La sua
andatura era perfetta, con un passo rapido ed i riflessi pronti in
attesa dello scontro, che non avrebbe tardato a giungere, mentre
Elios irradiava la sua figura con i propri ardenti raggi, marcando
ulteriormente la sua prominente sagoma. Sei soldati erano appostati
nelle vicinanze dello sbocco del sentiero, a poche decine di metri
dall'accampamento greco: parevano intenti ad individuare il modo
migliore per assaltare il campo.
La lancia
sibilò nell'aria come una freccia, prima di aprirsi un varco fra le
carni del primo a portata, quindi lo scudo dorato impattò
lateralmente, gettando di sotto il secondo, mentre il terzo avrebbe
fatto i conti con il taglio del medesimo armamento, che mandò in
frantumi il suo setto nasale e la dentatura, oltre a dissezionargli
il pomo d'adamo. Il quarto fece a malapena in tempo ad estrarre la
scimitarra, che si ritrovò la lama di Leonida a separargli le
viscere con uno sgualembro. Il quinto impallidì, al contrario del
sesto, che impattò contro lo scudo, prima che il ginocchio gli fosse
reciso, ed il piede del Re spartano gli spezzasse l'osso del collo.
Rabbrividì l'ultimo rimasto, farfugliando un idioma incomprensibile.
«Capisci
quello che dico?», scandì lentamente Leonida, estraendo la lancia
dalla schiena del compagno.
«Poco»,
asserì il persiano mettendo le mani in avanti, come ad invocare
clemenza.
«Chi ti ha
detto di questa strada?», domandò rabbiosamente. «Chi?!», ripeté
in un ringhio.
«Essere
donna...», esalò a fatica. «Efialte!», aggiunse poco dopo.
Lo schiavo di
Serse aveva continuato ad allungare le mani verso Leonida, alternando
frasi prive di senso e parole sconosciute al greco.
«Spero tu
stia pregando i tuoi Dei, persiano, perché ora li raggiungerai!»,
intimò sferrandogli un calcio diretto al petto, gettandolo di sotto.
Rimase impassibile ad osservarlo mentre finiva impalato fra le rocce.
Oramai aveva
la certezza che il tiranno dell'oriente stesse per muovere il suo
attacco. A Leonida ed i suoi non rimaneva che provare a resistere,
almeno finché gli alleati non si fossero messi in marcia per
fronteggiare l'immenso schieramento persiano.
«Dove sei
stato, mio Re?», gli domandò Agamestre, raggiungendolo. «Non sono
riuscito a nascondere la tua scomparsa sino all'alba. Serse si sta
avvicinando, ed ha scelto d'imitare i grandi re Greci: combatterà al
fianco del suo esercito», rivelò.
«Tanto
meglio per noi: oggi avremo la possibilità di far valere il nostro
immenso coraggio. Ho parlato con gli Dei, fratello mio... Il tuo
aiuto è sempre stato fondamentale, Agamestre, ed ho bisogno che lo
sia un'ultima volta: raduna gli opliti!», gli ordinò Leonida,
avviandosi verso le grandi anfore ove era depositata l'acqua per
l'accampamento. Vi versò all'interno il contenuto dell'otre di
pelle, e v'immerse il capo. La sua carnagione aveva ora la stessa
tonalità della cenere.
Non si
dilungò in troppe spiegazioni, prendendo da parte Agamestre nel
frattempo che gli spartani intingevano le punte delle lance e delle
spade nel liquido contenuto nell'anfora. Le lame presero lo stesso
colorito del volto di Leonida. Dall'altro lato delle Termopili,
intanto, risuonarono corni di battaglia, ed i greci si presentarono
sul terreno di scontro al seguito del loro re.
Gli Immortali
li attendevano a cinquanta metri dalla palude, e le loro unità
superavano di molto quelle elleniche. Fra la moltitudine di maschere
argentee tiranneggiava la figura di Serse, alto più che mai e
pallido come la luna. Il suo schieramento attendeva solo un suo
ordine per sferrare l'attacco finale.
Leonida era
conscio del fatto che avrebbe dovuto agire al più presto, prima che
gli arcieri persiani giungessero dal sentiero nascosto. Gli spartani
l'avevano seguito in battaglia privi delle corazze, con indosso
unicamente l'elmo ed il tribone. Credevano ciecamente nel loro re,
pur consapevoli di star andando incontro alla morte stessa, ma ad una
che sarebbe stata ricordata ed onorata dai posteri: una morte
onorevole, la migliore a cui uno spartano potesse aspirare in vita.
Leonida
anticipò gli opliti, dunque si volse per osservare negli occhi la
prima fila. I piumini d'ebano erano statici, dimostrazione che nessun
greco fosse intimorito dallo scontro imminente.
«Quest'oggi
non esistono spartani, ateniesi, tespiesi, mali o rivali fra le
nostre fila. Quest'oggi esistiamo solo noi: i Greci, figli di
un'unica ed amata terra. Siamo noi i prescelti che gli Dei hanno
designato per rappresentare il mondo ellenico, ed i suoi figli
risponderanno alla chiamata!», tuonò, ricevendo la decisa risposta
delle sue truppe, che batterono le lance contro gli scudi.
«Quest'oggi esiste una sola falange di uomini che combatte per la
propria libertà, per scacciare la belva assetata di morte che ha
distrutto l'oriente. Non varcherà la soglia delle Termopoli, non
finché un solo greco continuerà a respirare! La gloria ci attende
nell'oltretomba, fratelli miei, dobbiamo solo strapparla dal torace
della bestia! Salutate i vostri nemici, amici miei, ora che avete
intinto le vostre lame della linfa vitale degli Dei. Combattiamo
insieme per l'ultima volta: non come uomini, non come spartani, non
più come Greci... ma come Dei della guerra! Aù! Aù!», la sua voce
echeggiò in ogni dove.
Gli scarlatti
mantelli si levarono allo sbuffo di Eolo e gli scudi si serrarono in
un muro dorato, mentre le lance spuntavano come corna argentee dalle
file greche. Avanzavano come un sol corpo, quasi il potere di Ares
animasse i loro passi, mentre gli Immortali annullavano la distanza
che li separava dai loro nemici, agitandosi come lupi prima
dell'assalto. La discesa delle Termopoli nell'Ade aveva inizio.
«Quella fu
l'ultima battaglia di Re Leonida, erede di Eracle. Dovete a lui la
libertà che ora potete assaporare. Serse, il Tiranno che aveva
piegato l'oriente, si dovette infine inchinare davanti al coraggio
dei Greci, che quel giorno diedero la propria vita per un diritto che
oggi riteniamo scontato. L'esercito persiano non venne sconfitto, ma
Serse cadde per mano di Leonida, in quello stesso scontro; subito
dopo le sue truppe scapparono ad oriente. Il corpo del nostro amato
Re non venne mai rinvenuto sul campo di battaglia: di lui ci rimane
solo il suo scudo e la sua spada, la cui elsa è stata ricavata dalla
clava di Eracle. Egli sacrificò ogni frammento del suo corpo per la
sua amata patria, sino all'ultima goccia del suo sangue divino, che
condivise con i suoi fratelli prima dello scontro finale.
Sono l'ultimo
sopravvissuto delle Termopili, ma solo per ordine di Leonida,
l'uccisore degli Immortali!», evocò a gran voce Agamestre davanti
ai suoi allievi.
Per secoli si
sarebbe narrata la vicenda di Re Leonida e dei prodi Greci che
combatterono al suo fianco. Una donna, il cui nome venne scordato,
raccontò una storia differente sul conto dello spartano: diceva che
egli sacrificò ogni brandello della sua anima per abbattere i
persiani, e che strinse un patto con Lachesi, la Dea che tesse il
destino degli uomini, affinché le sue sorti mutassero il corso degli
eventi. Il suo sangue, discendente dal prode Eracle, aveva dato la
forza al suo popolo di fronteggiare gli Immortali, ma a costo della
sua stessa vita. Poco venne narrato invece sugli Immortali, nati da
una palude di cadaveri, da cui Serse attinse il suo vantaggio a
discapito delle forze greche.
Ma del resto,
come ogni leggenda, anche questo racconto è divenuto mito, e la
verità si è persa nell'evolversi della storia di un vero Eroe.
Termini aggiuntivi:
1Indica
l'armamento completo: elmo, corazza, gambali, scudo e lancia.
2Il
tribone è il mantello spartano, generalmente non usato in
battaglia.
1L'agogé
è l'addestramento a cui sono sottoposti gli spartani da giovani.
1Detto
"Ammazzalucertole" è uno spunzone posto alla base della
lancia.
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